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Fiducia e trappole dello psicologo
L'articolo " Fiducia e trappole dello psicologo", parla di:
- Alleanza terapeutica e fiducia
- La trappola dello psicologo
- Ostacoli alla creazione di un'alleanza
Fiducia e trappole dello psicologo
- La costruzione della fiducia nei percorsi psicologici: come posso facilitarla senza cadere nella "trappola dello psicologo"?
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Per parlare di fiducia nella relazione tra psicologo e cliente penso che sia doveroso iniziare facendo riferimento al tema dell'alleanza
terapeutica. Si tratta un fattore di rilievo per l'efficacia di un trattamento psicologico (Del Re, Fluckiger, Wampold, Symonds, Horvath,
2011) e si configura come una variabile terapeutica aspecifica con buona capacità di predire l'esito di un trattamento, per questo
è un aspetto particolarmente importante. Conoscere le tecniche e gli strumenti pratici di valutazione e intervento è sicuramente
fondamentale nella nostra professione di psicologi. Tuttavia, se manca un'alleanza solida, l'intervento difficilmente andrà a buon
fine.
In questo articolo non vorrei limitarmi a parlare di alleanza terapeutica, ma vorrei allargare la riflessione al tema della fiducia.
Lo psicologo, infatti, opera in diversi contesti in cui la creazione di una relazione solida è fondamentale. Pensiamo, ad esempio, al
lavoro negli sportelli di ascolto nelle scuole o al lavoro nel supporto alla genitorialità o al lavoro di assessment clinico (sia con
gli adulti che con i bambini).
Allo stesso modo, la creazione di relazioni solide e di fiducia tra cliente e psicologo è fondamentale anche in ambito aziendale.
Pensiamo, ad esempio, ai contesti di selezione o di analisi di potenziale o anche alla formazione. La persona come può esporsi se non
si fida e se non si sente in un contesto sicuro?
Per comprendere meglio questo concetto, ci viene a supporto il nostro Codice Deontologico e in particolare l'Articolo 3:
«Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere
psicologico dell'individuo, del gruppo e della comunità. In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle
persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace [...]»
Per poter aiutare le persone a comprendere sé stesse e accrescere la loro consapevolezza, indipendentemente dall'ambito in cui operiamo
come psicologi, dobbiamo necessariamente creare relazioni di alleanza, fiducia e di non giudizio che facciano sentire la persona al sicuro
nell'esplorare se stessa e il suo agire nel mondo.
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Quali sono i fattori relazionali che facilitano la creazione di relazioni efficaci?
Rifacendoci sempre alla letteratura sull'alleanza terapeutica, sono interessanti gli aspetti che Ackerman e Hilsenroth (2001, 2003) mettono
in evidenza: la benevolenza e la capacità di essere responsivi così come la capacità di essere flessibili, empatici,
comprensivi e rispettosi dando alla persona la possibilità di esplorare temi personali in un contesto di accoglienza, sicurezza emotiva
e incoraggiamento. A ciò si unisce l'interesse genuino per quello che l'altro ci racconta.
Questi aspetti ci aiutano a comprendere cosa faciliti la creazione di una relazione di fiducia cliente/psicologo.
Se immagino che per uno psicologo sia facile e, forse, persino ovvio tenere presenti questi aspetti relazionali, dall'altro lato quando siamo
immersi nella relazione possiamo correre il rischio di cadere in alcune trappole. In questo articolo vorrei concentrarmi su una in particolare,
quella che io ho chiamato "la trappola dello psicologo".
Com'è fatta la trappola?
Quando una persona richiede il nostro aiuto o, comunque, partecipa a un intervento in cui c'è uno psicologo che, in qualche modo,
opera per aumentare i livelli di consapevolezza della persona o di un gruppo, abbiamo sempre un obiettivo concordato con il nostro
cliente. Ad esempio, in psicoterapia possiamo avere l'obiettivo di lavorare sugli attacchi di panico o interrompere il circolo vizioso
della rimuginazione; in uno sportello di ascolto a scuola possiamo avere l'obiettivo di ridurre la tensione che sta vivendo un ragazzo
nell'affrontare una certa situazione, in un assessment di analisi di potenziale in azienda, possiamo avere l'obiettivo di aiutare la persona
a mettere a fuoco le sue aree di forza o di miglioramento sulle competenze manageriali. Anche in selezione abbiamo obiettivi come, ad esempio,
capire se le caratteristiche personali sono in linea con il ruolo e aiutare la persona a mettere a fuoco se le sue competenze e le sue
motivazioni sono in linea con le aspettative aziendali. Nella formazione ci sono gli obiettivi del percorso formativo specifico.
L'obiettivo, specie se abbiamo un tempo definito per raggiungerlo, può metterci una certa ansia e indurci a raggiungerlo il prima
possibile.
Questa, secondo me, è la trappola dello psicologo: sentire l'urgenza di risolvere il prima possibile secondo i nostri tempi.
Sebbene l'intenzione potrebbe anche essere buona, il rischio che corriamo è quello di restare concentrati su di noi e perdere di vista
l'ascolto dell'altro.
Confrontandomi con colleghi psicoterapeuti è emerso più volte l'aver commesso questo errore: cercare di andare veloci e risolvere
in fretta, perdendo però di vista i tempi della persona. I sintomi, infatti, possono essere la conseguenza di forme di adattamento
che la persona ha messo in atto (Andrew G. Billings e Rudolf H. Moos, 1981). Volerli sradicare rapidamente non solo può essere una
battaglia persa, ma può essere anche controproducente se si agisce troppo presto, perché si va ad aggredire modi che, per
quanto disfunzionali, la persona ha trovato per adattarsi all'ambiente meglio che ha potuto. Se non ha alternative adattive convincenti
non è detto che andare veloci sia la soluzione migliore.
A questo proposito vorrei porre l'accento su un tema scomodo: il bisogno di sentirci bravi terapeuti cercando conferme di ciò
da parte dell'altro. In altre parole: se ti faccio stare bene e ti tolgo il sintomo, riconosci la mia bravura e posso dirmi di essere un
bravo terapeuta. Attenzione perché questo meccanismo ci porta completamente fuori strada, concentrandoci su di noi e perdendo di vista
l'altro.
Il meccanismo è lo stesso anche se ci spostiamo ad altri ambiti: il bisogno di avere feedback come "bravo assessor" o "bravo psicologo
scolastico" o "bravo selezionatore" ecc. può farci perdere il focus sul nostro obiettivo profondo, quello del già citato
articolo 3 del Codice Deontologico.
Ackerman e Hilsenroth, nella loro ricerca, misero in evidenza un'altra cosa importante: gli aspetti che ostacolano la creazione di
un'alleanza solida. In particolare, hanno rilevato la rigidità di pensiero, la mancanza di coinvolgimento e interesse per ciò
che dice la persona (che è quello che succede quando, mentre la persona parla, ci arrovelliamo il cervello per capire quale domanda
porre prima ancora che la persona abbia terminato di parlare), l'autoreferenzialità, la tendenza a distrarsi (quando siamo con il
cliente e pensiamo a quanto stiamo sbagliando o a quanto non siamo bravi come vorremmo, ci stiamo distraendo), al criticismo o la scarsa
fiducia nelle proprie capacità di aiuto.
Farsi prendere dal bisogno di "curare" o di raggiungere gli obiettivi ai tempi che diciamo noi, rischia di mandarci completamente fuori strada,
perché possiamo rendere il setting poco sicuro, ansiogeno o poco accogliente e quindi non favorire la crescita delle persone.
Come evitare la trappola?
Come facciamo a evitare le trappole in contesti, come ad esempio quelli aziendali, in cui abbiamo in tempo limitato? Sicuramente una componente
di rischio c'è. Quando si lavora con la complessità (e le persone e le relazioni sono complesse) non possiamo avere mai la
certezza di un risultato. Partiamo, quindi, dalla possibilità che no, il risultato non abbiamo la certezza di raggiungerlo. Inoltre,
è necessario mettere in conto anche la possibilità che potremmo sbagliare. Siamo esseri umani, possiamo commettere errori. Non
ci piace, ma è una possibilità. Se riusciamo a sentirci solidi nelle nostre competenze tecniche e relazionali e accettare questi
rischi, allora possiamo immergerci nell'ascolto e "goderci il viaggio" senza dover attivare mille pensieri e sistemi di controllo.
Alla fine dei nostri interventi facciamo autoriflessioni su di noi; diamoci dei feedback non giudicanti, ma più obiettivi possibile;
andiamo in supervisione; studiamo e prendiamoci cura di noi accettando anche i nostri limiti. In questo modo possiamo avere buone
probabilità di evitare di cadere nella trappola.
Bibliografia
- Andrew G. Billings e Rudolf H. Moos, The role of coping responses and social resources in attenuating the stress of life events,
in Journal of Behavioral Medicine, vol. 4, n. 2, 1° giugno 1981, pp. 139-157
- Ackerman, S. J. & Hilsenroth, M. J. (2001), A review of therapist characteristics and techniques negatively impacting the therapeutic
alliance, Psychotherapy Theory Research & Practice, 38 (2), 171-185.
- Ackerman, M.J. & Hilsenroth M. J. (2003), A review of therapist characteristics and techniques positively impacting the therapeutic
alliance, Clinical Psychology Review, 23 (1), 1-3
- Cirimbilla, E. (2020), L'alleanza terapeutica in età evolutiva: un percorso tra creatività e collaborazione,
Psicoterapeuti In-formazione, 25.
- Del Pianto, E. (2004), Assessment Center, Milano: Franco Angeli
Altre letture su HT
- Luisa Fossati, "Psicoterapia: come affrontare
un paziente resistente?", articolo pubblicato su HumanTrainer.com, Psico-Pratika nr. 179, 2021
- Irene Bellodi, "La relazione terapeutica con l'adolescente:
un equilibrio tra motivazioni", articolo pubblicato su HumanTrainer.com, Psico-Pratika nr. 70, 2011
- Aurora Capogna, "Problemi di ordinaria quotidianità
fra paziente e terapeuta", articolo pubblicato su HumanTrainer.com, Psico-Pratika nr. 64, 2011
- Giacomo Mancini, "Tesina in
Terapia Psicoanalitica: L'Alleanza Terapeutica come Custode della Psicoterapia", articolo pubblicato su HumanTrainer.com, Psico-Pratika nr. 53, 2010
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