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Psicoterapia: come affrontare un paziente resistente?
"Mi dica lei cosa devo fare". Gestire richieste e meccanismi di difesa nei pazienti scettici

L'articolo "Psicoterapia: come affrontare un paziente resistente?", parla di:

  • Caratteristiche dei pazienti scettici
  • Atteggiamento e reale motivazione
  • Regole per lavorare con i pazienti resistenti
Psico-Pratika:
Numero 179 Anno 2021

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Psicoterapia: come affrontare un paziente resistente?
"Mi dica lei cosa devo fare". Gestire richieste e meccanismi di difesa nei pazienti scettici

A cura di: Luisa Fossati
Psicoterapia: come affrontare un paziente resistente?
Sono quei pazienti che nessuno di noi vorrebbe avere. Quelli che arrivano scettici o che temono di essere "casi senza speranza"; magari hanno già fatto altri percorsi di supporto psicologico o psicoterapia e non sono andati bene e dubitano di noi fin dall'inizio.

Questo genere di pazienti, molto spesso, fa sentire scomodi, specie quando non si hanno alle spalle anni di esperienza.
A volte ci raccontano del loro problema in modo laconico guardando altrove, altre volte sembra trasparire un tono di sufficienza. Alternano i "no" a tutto quello che diciamo ai "sì, ma questo lo sapevo già" ai "mi dica lei cosa devo fare". Sono facili da riconoscere perché... ci stanno antipatici o ci fanno un po' rabbia o ci mettono ansia! Come possiamo lavorarci al meglio?
Regola numero 1: ascoltare
Quando ci troviamo di fronte a qualcuno che mette in discussione noi e il nostro lavoro è facile cedere all'ascolto delle nostre insicurezze. Pensieri come: "non sei così bravo"; "se solo avessi fatto il corso di..."; "non hai abbastanza esperienza per aiutarlo...", ecc., possono nascere in presenza di questi clienti.

Se in presenza di un paziente resistente diamo la possibilità ai nostri pensieri negativi di prendere il sopravvento, rischiamo di cadere in una grossa trappola, perché:
  • orientiamo la nostra attenzione sui nostri pensieri invece che sul racconto del paziente. Inevitabilmente l'attenzione che investiamo a dare ascolto ai nostri pensieri è attenzione che viene tolta al racconto del paziente;
  • i pensieri screditanti su di noi ci innescano emozioni conseguenti come, ad esempio, l'ansia o l'abbattimento. Inevitabilmente queste emozioni si ripercuoteranno sul nostro modo di comunicare. Magari avremo la voce più tremolante, l'eloquio più rapido, il tono di voce mono-tono nel tentativo di apparire calmi. Come ben sappiamo, le persone sono molto più sensibili alla comunicazione non verbale che a quella verbale e pertanto la nostra tensione la percepiscono nel nostro comportamento. Questo vuol dire che reagiranno al nostro comportamento per come lo leggono. Quindi, se appariamo insicuri o titubanti di fronte a una persona sulla difensiva, è probabile che non si trasmetta solidità, confermando all'altro la legittimità del suo scetticismo e della sua resistenza.
Pertanto, è fondamentale mettere da parte i nostri pensieri su di noi e sul nostro lavoro e dedicarci completamente all'ascolto della persona. In questo modo ci mettiamo nella condizione di comprendere profondamente il problema, il suo vissuto, il nostro vissuto, l'aderenza dei nostri strumenti al problema che ci porta. Pensare di fare un invio a un collega è legittimo, ma è importante che derivi da considerazioni terapeutiche e non dal nostro senso di inadeguatezza.
Regola numero 2: la reale motivazione
Non confondere l'atteggiamento resistente e oppositivo con la reale motivazione. Le resistenze al cambiamento dei pazienti fanno parte del nostro lavoro e il dire "no" a tutto quello che diciamo o il considerarlo inutile perché tanto si è "senza speranza" sono spesso dei meccanismi di difesa. In qualche modo l'etichetta "sono senza speranza" o il pensiero "nessuno può farci nulla con me", per quanto dolorosi, sono certezze che la persona si tiene strette perché in qualche modo la definiscono. Se non ci credete, provate ad approfondire la loro storia di vita. Quanto erano liberi nelle scelte? Quanto si sentivano validati/approvati nella loro vita? Quanto hanno sentito che potevano essere amati per come erano?

Quindi, evitiamo di prestare attenzione esclusivamente all'oppositività, al suo "non c'è nulla da fare per me", ma cerchiamo di capire quanto effettivamente la persona sia disposta a mettersi in gioco. Noi possiamo metterci la nostra parte di lavoro, ma quanto c'è effettiva motivazione dall'altra parte a investire nel lavoro terapeutico? A volte facciamo l'errore di pensare che la buona riuscita di un percorso di aiuto dipenda solo da quanto siamo "bravi" noi. In realtà, in ogni relazione c'è uno scambio e un'influenza reciproca e se in una relazione a due la persona che lavora è una sola, come può esserci crescita? Noi non abbiamo il dovere di convincere nessuno a lavorare, ma possiamo offrire supporto e strumenti per migliorare il proprio benessere. La persona, però, è importante che li accolga, altrimenti sarebbe come andare da un fisioterapista e poi non fare gli esercizi che ci dice di fare.

Mi faccio domande sulla motivazione della persona quando mi balza in testa l'immagine di un grosso macigno, con me che sono lì a cercare di spostarlo. Quando intrusivamente mi passa nella mente questa immagine, mi chiedo quanto la persona si stia effettivamente mettendo in gioco e quanto, invece, scelga di stare immobile nell'attesa di essere "salvata". Attenzione perché in casi come questi non si rischia solo di fare un lavoro poco utile (nei percorsi psicologici se manca la spinta motivazionale della persona è dura lavorare), ma possiamo cadere nella trappola di dare consigli o diventare direttivi (nel tentativo disperato che la persona un passettino lo faccia!), con l'ulteriore rischio di essere le ennesime persone nella vita del paziente che rimandano il messaggio "ti dico io quello che devi fare", per poi sentirci abbattuti quando non lo fanno.
Regola numero 3: ricordare che ci sta parlando di sé
Se ci lasciamo condizionare sui pensieri relativi alla nostra inadeguatezza ("non sono una brava psicologa"; "se fosse andata dal dott. X sarebbe stata meglio"; "non sono abbastanza formato", ecc.) diventiamo egocentrici, nel senso che perdiamo di vista il fatto che la persona sta parlando di sé e non di noi. Mi è capitato recentemente di avere a che fare con una paziente che dopo qualche mese di terapia mi ha detto: "io onestamente questi grandi cambiamenti che le persone dicono che faccia la psicoterapia non li vedo". Penso che nessun terapeuta vorrebbe sentire mai una frase così. E allora? Personalmente non sono caduta nella trappola del: "IO non ho fatto abbastanza"; "IO non sono in grado...". Ho risposto con empatia, facendo dei rimandi alla persona sul suo vissuto. Questo le ha permesso di andare più in profondità sulla sua difficoltà di passare dal pensare diversamente all'agire diversamente; ha permesso a me di facilitarla nel fare collegamenti tra le sue sensazioni di impotenza di adesso e quelle della sua vita passata. A fine seduta la persona mi ha detto una cosa che non mi aveva voluto dire prima: aveva fatto già altri due percorsi, tra cui uno da una personalità illustre in Italia. Ha concluso con: "Lei è stata l'unica persona che, di fronte alla mia disperazione di non farcela, ha scelto di ascoltarmi invece che di difendersi".
Ha scelto di tornare. Se io in quell'occasione avessi fatto come altre volte, ossia pensare che la persona stesse parlando di me e non di sé, forse sarei stata l'ennesima figura che, di fronte al suo affermarsi, si sarebbe chiusa e la avrebbe lasciata andare.
Conclusione
Essere psicologi non è facile, lavoriamo con degli "tsunami emotivi" che remano contro il benessere della persona seppure spesso armati di buoni intenzioni perché, ricordiamoci sempre, i meccanismi di difesa servono a proteggere. Tuttavia, non lasciamo che i nostri pensieri su noi stessi ci distolgano l'attenzione dalle cose importanti. La nostra preparazione è fondamentale, ma nella relazione non ci siamo solo noi; solo ascoltando, mettendo la persona al centro, abbiamo possibilità di essere veramente di aiuto.
Bibliografia
  • Binswanger, L. (1970). Per un'antropologia fenomenologica. Milano: Feltrinelli.
  • Rogers, C. (1970). Psicoterapia di consultazione. Roma: Astrolabio - Ubaldini editore.
  • Rogers, C. (1989). Psicoterapia centrata sul cliente. (L. Lumbelli, A cura di, & G. Cacchi Pessani, Trad.) Houghton Miffin Company.
  • Smith, D. (1982). Trend in Counseling and Psychology. American Psychologist, 32, 802-809.
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