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Problemi di ordinaria quotidianità fra paziente e terapeuta

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Problemi di ordinaria quotidianità fra paziente e terapeuta

L'articolo "Problemi di ordinaria quotidianità fra paziente e terapeuta" parla di:

  • Svalutazione del terapeuta ed Educazione del paziente
  • Confronto con la morte e Visione del mondo
  • Tecnica del "prestigiatore" e Distinzione tra disagio e realtà
Psico-Pratika:
Numero 64 Anno 2011

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Articolo: 'Problemi di ordinaria quotidianità fra paziente e terapeuta'

A cura di: Aurora Capogna Collaboratore HT
    INDICE: Problemi di ordinaria quotidianità fra paziente e terapeuta
  • Introduzione
  • Cosa fare se il paziente svaluta il terapeuta
  • L'importanza di educare il paziente
  • Modi per confrontarsi con la morte
  • Come muoversi a fronte di una richiesta di risposta immediata
  • Imparare ad essere un po' dei prestigiatori
  • La necessità di distinguere tra disagio e realtà
  • Conclusioni
  • Bibliografia
Introduzione

Al termine della specializzazione in psicologia clinica, ero entusiasta di poter iniziare finalmente una mia attività privata, libera da condizionamenti di tipo procedurale e burocratico, che limitavano la mia libertà professionale, pur mantenendo fede, come è ovvio, al codice deontologico.
L'esperienza che mi ero costruita fino allora mi aveva sicuramente "addestrata" ad affrontare problemi molto diversi tra loro, sollecitandomi sia a fare affidamento ad una conoscenza integrata di modelli teorici, che alla mia capacità di mettermi in gioco.
Infatti, presso il Policlinico Umberto I di Roma, vedevo i pazienti prevalentemente all'interno dell'ambulatorio, ma, a volte, anche esternamente, nei diversi reparti ospedalieri: mentre nel primo caso il paziente veniva accolto dallo specializzando di turno (sotto la supervisone di un tutor), nel secondo caso, invece, era lo specializzando a dover "correre" dal paziente per far fronte ad una certa emergenza del momento.

Come si può ben immaginare, il fattore prevedibilità, per il medico o lo psicologo, varia enormemente da una situazione all'altra, nonché il senso di solitudine che si prova nel dover affrontare un'emergenza in un reparto, magari ancora sconosciuto, in cui il paziente è circondato da familiari esasperati.
Per non parlare poi della presenza o meno di "difesa personale": mentre nell'ambulatorio paziente e terapeuta si incontrano in un territorio "neutro", dove il setting rispetta regole ben precise, nell'ospedale si deve far fronte, prima di tutto, alla "violazione" di tali regole, ossia niente neutralità, niente setting, benché la psicoterapia d'emergenza rientri in un modello teorico e metodologico ben preciso (Bellak L.).
Solo il terapeuta con le sue infinite risorse e, direi, la sua infinita libertà, che si traduce, a secondo dei casi, lungo un continuum che va dal desiderio di libertà, quando il confine che il terapeuta crea con il paziente è troppo rigido, ad una paura della propria libertà, quando tale confine viene annullato.

Quelle che ho appena descritto, sono, in realtà situazioni estreme, volte a semplificare due atteggiamenti tipici del terapeuta che, a mio avviso, sono a monte di tutte le possibili e potenziali collusioni che possono emergere durante una psicoterapia:

  • la paura del cambiamento, della novità, l'aggrapparsi alle conoscenze teoriche e metodologiche
  • il desiderio eccessivo di trasformazione, lo stravolgere le conoscenze teoriche e metodologiche

E' pur vero che sperimentare diversi confini nella relazione terapeutica, aiuta sicuramente il terapeuta, specie se alle prime armi, a crescere non solo professionalmente, ma anche umanamente, come persona.
Premesso ciò, cercherò di portare alla luce gli aspetti "periferici" di una psicoterapia, ovvero quelle situazioni assolutamente reali e ordinarie che si manifestano con una certa frequenza nella relazione terapeutica e che, più di ogni altra cosa, mobilitano tutte le nostre risorse, mettono in discussione la nostra capacità di cambiare, trasformando una psicoterapia "canonica" in una situazione di emergenza, in cui l'ascolto e l'accoglienza non sono più sufficienti, richiedendo un'azione più diretta da parte del terapeuta.
Gli argomenti che riporto sono emersi nel corso di vari incontri con altri colleghi sotto la supervisione di uno psicoterapeuta "anziano":

  • cosa fare se il paziente svaluta il terapeuta
  • l'importanza di educare il paziente
  • modi per confrontarsi con la morte
  • come muoversi di fronte ad una richiesta di risposta immediata
  • imparare ad essere un po' prestigiatori
  • la necessità di distinguere tra disagio e realtà
Cosa fare se il paziente svaluta il terapeuta

Esistono vari modi in cui un paziente può svalutare il terapeuta, come, ad es. il mettere sempre in discussione le interpretazioni, tale da rendere la terapia una sfida intellettuale o una lotta per chi deve dire l'ultima parola, oppure mancare spesso agli appuntamenti, arrivare costantemente in ritardo.
Al di là della specifica patologia del paziente, abbiamo a che fare con un comportamento decisamente ambivalente, caratterizzato da una "paralisi" delle emozioni, che non lascia spazio per una comunicazione autentica.

Oltre a questo, però, esiste una forma di ambivalenza, a mio avviso, ancora più insidiosa: è il caso del paziente che contemporaneamente si rivolge ad altri terapeuti per risolvere la medesima sintomatologia.
Premetto che sono favorevole ad un approccio integrato in psicoterapia (si pensi al paziente obeso o diabetico, che richiede un intervento multidisciplinare, o ad alcuni disturbi che rendono necessaria un'integrazione farmacologica), lo sono un po' meno quando questo non sembra necessario e, soprattutto, quando diventa un modo per mettere alla prova lo psicoterapeuta.
Quando capita, non è il caso di farsi prendere dallo sconforto.

  • Primo, è opportuno dare al paziente una regola ben precisa, specie se appare confuso sul da farsi.
    La regola è detta dell'astinenza, ossia il paziente si impegna per i primi sei mesi a non rivolgersi ad altri specialisti, dopo di che sarà libero di "sperimentare" ciò che vuole, se ancora lo desidera.
  • Secondo, bisogna rassicurare il paziente circa l'andamento della sua sintomatologia, cercando di chiarire che il cambiamento richiede tempo se si desiderano ottenere benefici a lunga scadenza.
    Quindi, bisogna metterlo in guardia anche da chi offre soluzioni facili e "indolore", distinguere il concetto di cura da quello di guarigione.
  • Terzo, è importante anche valutare l'idea che il paziente ha di "relazione", e rendersi conto che spesso il suo modo di agire non è volutamente mirato a svalutare il terapeuta, ma rientra nel suo modo "naturale" di relazionarsi.
    A questo proposito potrebbe essere molto utile valutare lo stile di attribuzione, ovvero locus of control, contraddistinto dalla propensione dei soggetti verso l'attribuzione all'esterno o piuttosto l'assunzione in proprio della responsabilità degli eventi di successo o insuccesso (Julian Rotter, 1966).
    Clinicamente, il locus of control "esterno" è legato a meccanismi di difesa dissociativi più o meno latenti e ad una tendenza a considerare gli altri come responsabili delle proprie emozioni, per cui tali pazienti, solitamente, non riescono a manifestare la capacità di preoccuparsi per gli altri.
    In questo caso è necessario rinforzare la stima del paziente, focalizzare l'attenzione sulle potenzialità che ancora ha a disposizione, in modo che senta di poter fare affidamento su se stesso e sentirsi meno in balia dell'esterno.
L'importanza di educare il paziente

Il più delle volte, le problematiche del paziente derivano sia da fattori contingenti della sua storia familiare, come, per esempio, l'ordine di nascita dei figli, il sesso, ecc. che possono determinare alcune "disparità" di trattamento, che da "vissuti", paure, angosce, risentimenti, generati da quel "microsistema", conosciuto meglio come famiglia.
Fin da piccolo, il paziente acquisisce, dunque, nella famiglia, che "fornisce l'umanità essenziale dell'uomo", modelli di comportamento adeguati o meno, ma che comunque formeranno le basi dell'organizzazione della sua personalità e resisteranno ai cambiamenti, determinando quel "comportamento adattivo" che si renderà necessario nel momento in cui il bambino cercherà di adeguarsi alle esigenze socializzanti del mondo esterno.

All'interno della psicoterapia, a prescindere dall'orientamento, il paziente porta quei modelli di condotta che il nucleo familiare gli ha fornito, e che tuttora agiscono nelle diverse realtà quotidiane, modelli che possono essere sani o patologici:

  • i modelli di condotta sani rispondo ai criteri di chiarezza nella delimitazione dei ruoli del padre, della madre e dei figli, stabilendo, comunque, un clima di "intimità familiare";
  • i modelli di condotta patogeni, sono quelli in cui prevalgono le condotte di:
    - rifiuto totale o parziale, manifesto o nascosto, che genera nel bambino sentimenti di autostima negativa, d'incapacità, d'inadeguatezza, di scoraggiamento;
    - asfissia psicologica, quando l'iperprotezione, che risponde al bisogno genitoriale di "dare assistenza" al figlio, può causare grossi "guasti" nella strutturazione di personalità del bambino, che spesso diventa debole, passivo, incapace di superare la minima frustrazione e di sostenere lo sforzo, manifesta frequenti sentimenti di ostilità contro coloro che non gli danno quello che pretende o sentimenti di incapacità e paure;
    - disciplina eccessiva, nella quale trovano rifugio genitori ansiosi, insicuri, con un grosso senso di inadeguatezza personale, in cui il bambino può manifestare un atteggiamento di eccessiva sottomissione e dipendenza, con sentimenti di paura, nonché ostilità repressa, oppure atteggiamenti di inadeguata ribellione;
    - indulgenza eccessiva, che spesso nasconde disinteresse per incapacità, per "resa" genitoriale di fronte ai conflitti inevitabili con i figli, e che conducono, solitamente, i bambini ad essere indifferenti, sconsiderati, egoisti, esigenti, impazienti e, a volte, specie nell'adolescenza, asociali, aggressivi e delusi.

Per questo ritengo fondamentale che la psicoterapeuta debba trasmettere una "presenza educativa", oltre che supportiva e/o espressiva, dimostrando di essere capace di costruire quegli "argini" che delimitano la relazione col paziente, attraverso l'applicazione di regole cui il paziente dovrà adeguarsi se vuole migliorare se stesso.

A mio avviso, oggi un terapeuta non può trascurare le grandi trasformazioni, legate ai processi di industrializzazione e urbanizzazione, che hanno profondamente modificato la famiglia nell'ultimo secolo, tanto che diversi autori si sono soffermati sulla famiglia come "paziente": malata di "anomia" (Durkheim), di "alienazione" (Fromm), di "eterodirezione" (Riesman), ecc. che soffre di "solitudine, paura, confusione", ma che rimane pur sempre quel mondo limitato e "costante" nelle persone e nelle relazioni, che permette al bambino di sviluppare le proprie potenzialità adattive, di costruire regole, valori e aspettative.
La messa a punto di regole pone il terapeuta in una posizione di messa in discussione, poiché le regole non sono assolute, non possono prescindere da quel particolare paziente, ma sono contenute in un contesto particolare (alleanza terapeutica) tra uno specifico paziente (la sua organizzazione di personalità) ed uno specifico terapeuta, con la propria formazione, e con la propria capacità di trasmettere al paziente una relazione autentica.

Modi per confrontarsi con la morte

Succede di confrontarci con la morte nei casi di malattie terminali o di tentativi di suicidio.
Prima di entrare nel merito di queste situazioni, credo sia importante riflettere sul fatto che il modo di vivere di una persona sia in stretta relazione sia con la visione che ha del mondo che della morte.
Per esempio, una persona angosciata dall'idea della morte vivrà per essere sopraffatta da una grossa mole di stimoli per evitare i momenti di silenzio, di quiete, spesso associati al concetto di morte.
Detto questo, possiamo distinguere due visioni opposte e stereotipate da parte di medici o psicoterapeuti circa la morte, soprattutto in presenza di una malattia degenerativa:

  • da un lato c'è una visione chiusa in se stessa, rigidamente confinata, data per scontata, che non concede al paziente la possibilità di prender parte al processo di morte.
    Una frase tipica in questi casi potrebbe essere: "Guardi, non pensi di star meglio di così";
  • dall'altro lato, al contrario, troviamo una visione troppo aperta, sconfinata, pronta a concedere grandi ma irrealistiche speranze al paziente.

In entrambi i casi, il medico tende ad evitare un confronto diretto con la morte: il primo si comporta in modo assolutamente "trasparente", ma cinico, mentre il secondo appare rassicurante ma ambiguo.
Il risultato è che, agendo in questi modi, si priva il paziente di vivere il qui ed ora, di decidere come vivere il tempo che gli rimane, poiché o si lascia il paziente sospeso, come "ibernato" in attesa di una morte imminente e schiacciante o, al contrario, di una guarigione miracolosa.
In altre parole, come il medico tiene a bada le proprie emozioni legate alla morte, così trasmette al paziente il messaggio che non è il caso di fare i conti con queste emozioni e, meno che mai, di condividerle con il medico.

Per quanto riguarda il tentato suicidio, la valutazione clinica del terapeuta appare condizionata, inconsapevolmente, da due diversi atteggiamenti "religiosi", come metafora di due modi diversi del terapeuta di confrontarsi con il suicidio:

  • inclinazione al cattolicesimo: implica il perdono come componente fondamentale, per cui il paziente, agli occhi del medico, può continuare a vivere con i propri "peccati", ossia nell'imperfezione.
    Questo accade perché i peccati vengono divisi dall'intera comunità, in cui il messaggio principale è: "Siamo tutti peccatori", per cui "dobbiamo sostenerci a vicenda";
  • inclinazione al protestantesimo: l'atteggiamento è opposto al precedente, in quanto l'errore non viene perdonato, la persona non può continuare a vivere come peccatore in mezzo ad una società senza macchia che non potrebbe mai accettarlo.
    Il messaggio che arriva al paziente da parte del medico è: "Io non posso essere così".
    L'occhio viene posto sull'individuo, che non appartiene a nessuna comunità, non si riconosce con nessuno.

Sempre traendo spunto da questa metafora, possiamo esemplificare questi due opposti atteggiamenti con due personaggi conosciuti dal grande pubblico religioso e non solo: Pietro e Giuda.
Entrambi hanno tradito Gesù, ma mentre Pietro si dispera, piange per poi continuare a vivere e a convivere col proprio sbaglio, Giuda non può contemplare un perdono, poiché prima di tutto non riesce a perdonare se stesso, non riesce ad immaginare di poter vivere come un peccatore, senza il controllo totale sulla propria vita.
In questo senso, potremmo definire il suicidio la forma di controllo più esasperata sulla propria vita.

Come muoversi a fronte di una richiesta di risposta immediata

L'esempio tipico, è il paziente che ci chiede, con una certa urgenza, "cosa devo fare" (es. con mio figlio, con mia moglie, con il datore di lavoro, ecc.).
Prima di rispondere, dovremmo essere consapevoli di un aspetto molto importante che, credo, venga di frequente sottovalutato, ossia la cosiddetta Weltanschauung, sia propria che del paziente, termine di origine tedesca che può essere tradotto con "concezione del mondo", "visione del mondo" oppure "immagine del mondo".

Il primo filosofo ad utilizzare questo termine è stato Wilhelm Dilthey nel 1907 nel III capitolo di "L'essenza della filosofia".
Egli individua tre principali tipi di Weltanschauung:

  • materialistica o naturalistica
  • quella dell'idealismo oggettivo
  • quella dell'idealismo della libertà

Così poi egli conclude il capitolo:

"È compito della dottrina dell'intuizione del mondo rappresentare metodicamente in base all'analisi del corso storico della religiosità, della poesia e della metafisica, in antitesi col relativismo, la relazione dello spirito umano con il mistero del mondo e della vita".

Applicato alla clinica, questo ci insegna che ogni richiesta del paziente è sempre condizionata dalla "visione del mondo" che egli ha, dal corso della sua storia personale e familiare, dalle sue crisi esistenziali.
Non esistono richieste assolute come non esistono risposte assolute.
Nel caso specifico, per esempio, se un paziente ci chiede "come devo comportarmi con mio figlio che vuole fare sempre di testa sua?", bisogna prima capire che immagine ha la persona del rapporto padre-figlio: materialistica o idealistica, ossia il padre deve solo portare i soldi a casa e ricevere obbedienza, oppure deve trasmettere valori, idee, aspettative e mettersi in discussione con i figli?
Che definizione il padre ha di se stesso e del figlio, che schemi di comportamento ha trasmesso al figlio (es. disciplina eccessiva, indulgenza, o altro) in relazione alla propria concezione del mondo.

Se si salta questo passaggio, si corre il rischio di dare una risposta secondo la nostra visione del mondo, che riflette i nostri personali significati, oppure secondo il "senso comune", fatto di regole implicite e date per scontate.
Quindi, come prima regola, non bisogna mai andare di fretta.
In realtà, a parte rari casi, il paziente non si aspetta di risolvere nell'immediato il proprio disagio: il più delle volte è un problema del terapeuta che deve far fronte a sentimenti di inadeguatezza, all'incapacità di rispettare le aspettative legate al proprio ruolo, alla paura di essere respinto o rifiutato dal paziente.

Un modo forse più semplice per penetrare la Weltanschauung è quella di indagare le "molteplici voci interiori" del paziente.
Infatti, molti dei nostri desideri possono essere collegati a voci interiori caratterizzate da comportamenti tipici, legati ad una particolare visione del mondo, come, per esempio, "la donna modesta", il "ladro", il "pensatore", il "padre tradizionalista", il "giovane ribelle", il "manipolatore", solo per dirne alcuni.
Questa teoria è stata formulata dall'italiano R. Assagioli, secondo il quale dentro di noi ci sono diverse voci che esprimono rispettivamente determinati desideri e necessità, così come c'è anche un io centrale che coordina le varie voci e controlla che ognuna svolga il proprio ruolo senza soffocare le altre.

Tornando al nostro caso, immaginiamo di trovarci di fronte ad un "padre tradizionalista", la cui voce interiore corrisponde alla seguente visione: "Sono duro, deciso, ho sempre ragione e inoltre sono un convinto fautore di regole e disposizioni".
Tale visione entra in conflitto con quella che potrebbe avere il figlio, il quale risponde alla voce interiore del "giovane ribelle": "Non voglio che niente a questo mondo limiti la mia libertà. Odio essere manipolato con paroline dolci. L'amore è come un'esca e quando sei preso all'amo è inutile dibattersi".

Come si può vedere, entrambe le visioni sono molto "dure", rigide, confinate, chiuse ad altre possibilità e, soprattutto, fuggono entrambe da una comunicazione aperta dei sentimenti e delle emozioni.
In altre parole, sono voci nettamente "maschili", che richiederebbero l'integrazione di una dimensione femminile, dell'Eros.
A partire da ciò, si può iniziare il lungo processo di risposta.

Imparare ad essere un po' dei prestigiatori

"Lei pensa che la mia testa sia a posto?".
Spesso i pazienti pongono questa precisa domanda. Cosa fare?
Da un lato bisogna naturalmente rassicurare e tranquillizzare il paziente, mentre dall'altro è opportuno comunicare la verità, il "però" che non va, ma mai in maniera diretta, bensì inserendo il problema a livello subliminale all'interno del discorso, di modo che il paziente quasi non si accorga del nocciolo del problema, lasciando il tempo necessario per un'elaborazione più profonda e consapevole.

In passato, alcuni studiosi di psicologia della percezione hanno condotto ricerche sulla "percezione subliminale" (R.S. Lazarus, R.A. Mc Cleany, 1951), vale a dire sulla percezione di stimoli sotto la soglia necessaria perché se ne abbia la presa di coscienza.
Il fatto che tali stimoli siano al di sotto del livello della coscienza, impedisce la percezione come atto cosciente, ma non impedisce la registrazione di tali stimoli che, a seconda delle loro caratteristiche, generano una risposta emotiva inconscia, come, ad esempio, la sudorazione (cosiddetto "riflesso psico-galvanico").
Questo significa che esiste una difesa percettiva nella persona, che essa è inconscia ed agisce a livello subliminale.
Inoltre, il concetto di difesa percettiva integra quello, già evidente, di difesa mnestica.
Ciò significa che, di fronte ad una domanda che esprime un alto grado di ansia, il terapeuta deve tener conto degli schemi percettivi e mnestici che il paziente porta, ossia deve porsi la seguente domanda:
"Quale classe di stimoli o esperienze è preparato a percepire e a ricordare il paziente, in relazione alla sua esperienza passata, ai suoi interessi, alle sue motivazioni, alle sue aspettative, al suo bisogno di consenso sociale, di sicurezza, di affermazione e di aggressione, ai suoi tabù?".

Quelli che ho appena elencato sono i diversi fattori "personali" o "funzionali" portati alla luce da una corrente di studio e di ricerca psicologica sviluppatasi negli anni '40 negli Stati Uniti, denominata New Look: tale movimento ha mostrato palesemente che la nostra situazione affettiva, emotiva, il nostro atteggiamento, la nostra esperienza passata, ecc. si riflettono e condizionano il nostro modo di percepire.
Di conseguenza, è opportuno, a mio avviso, creare una risposta "su misura", in accordo con le ipotesi di partenza del paziente, ovvero con quella struttura già precostituita della sua personalità, ma, allo stesso tempo, che mobiliti le difese del paziente, in maniera indiretta, senza che egli se ne renda conto in modo cosciente, facendo leva su quei fattori personali elencati poc'anzi.

Infatti, mentre un'eccessiva rassicurazione rischierebbe di insospettire il paziente, il quale, il più delle volte è cosciente del fatto che c'è "un qualcosa" che non va, l'espressione diretta della verità circa il problema da risolvere rischierebbe di elevare troppo l'ansia del paziente, stravolgendo i suoi schemi di partenza che fungono da ancora di salvezza.
In entrambi i casi, egli cercherebbe altrove la risposta di cui ha bisogno... o di cui non ha bisogno.

Per esempio, nel caso di un paziente che soffre di attacchi di panico, il quale risulta, dall'analisi delle dinamiche relazionali, che tende ad "utilizzare" gli altri (focus del problema), gli si può far notare, indirettamente, come lui sarà disposto a lasciarsi "usare" se qualcun altro ha bisogno di aiuto.
Ovviamente, questa tecnica richiede una buona capacità di intuizione da parte del terapeuta, nonché una discreta esperienza clinica.

La necessità di distinguere tra disagio e realtà

Di solito, quando arriva un nuovo paziente, possiamo avere la tendenza ad analizzare superficialmente il suo problema, diagnosticando il disagio che presenta all'interno di un quadro nosografico preciso ma inadeguato per quel singolo paziente.
Come diceva Sartre:

"l'esistenza precede l'essenza"

vale a dire, non sempre una diagnosi, basata su informazioni comunicate dal paziente e/o dai familiari, rende ragione del "reale" disagio del paziente.

Concretamente, nell'analizzare la mole di informazioni anamnestiche, il terapeuta deve capire (e questo è fondamentale) in che modo determinate esperienze abbiano potuto ostacolare la realizzazione di alcuni obiettivi, altrimenti tali esperienze, anche se negative o addirittura traumatiche, non possono essere considerate alla base del "vero" problema del paziente.

Ciò appare molto evidente se, ad esempio, somministriamo l'AAI (Adult Attachment Interview) ad un paziente per inquadrare il suo stile di attaccamento: sicuro-autonomo, distanziante, invischiato, irrisolto-disorganizzato.
Nella valutazione dell'intervista, vediamo come la scala "Probabile esperienza di attaccamento durante l'infanzia" è chiaramente differenziata dalla scala "Stato attuale della mente rispetto all'attaccamento", nonché dalla scala "Il Sé riflessivo".
Questo perché un'esperienza di rifiuto, di trascuratezza, di inversione di ruoli o altro trasmessa dal genitore, non necessariamente "innesca" un attaccamento insicuro nel figlio.
Al contrario, la formazione di uno stile di attaccamento sicuro o meno deriva dalla capacità e dalla possibilità di elaborare in modo adeguato le esperienze passate, di riflettere su se stessi.
Tale elaborazione si basa su parametri ben precisi come coerenza del trascritto, mancanza di memoria ed altro, di cui rimando il lettore ad un personale approfondimento.

Alcuni pazienti, quindi, possono raccontare un episodio legato al difficile rapporto con la madre o con il padre, ma se, di fatto, questo non ostacola la realizzazione sentimentale e/o professionale di quel particolare paziente, allora il "vero" problema va cercato e individuato altrove, di modo che la diagnosi (essenza), se pur fondata sulla conoscenza di modelli teorici convalidati dalla comunità scientifica, non preceda la comprensione della persona (esistenza), che richiede un ascolto attivo da parte del terapeuta, nonché una capacità di mettersi in discussione.
Citando C. Rogers in La terapia centrata sul cliente:

"Se veramente mi permetto di capire un'altra persona, posso essere cambiato da quanto comprendo. Tutti abbiamo paura di cambiare"

Inoltre, è importante capire gli eventuali vantaggi secondari che rendono il problema persistente nella vita del paziente, oltre che le cause e le modalità di esordio del problema stesso.
Infine, è possibile aiutare il paziente a ri-flettere sul proprio problema proiettandolo su altre persone.
Per esempio, il terapeuta può chiedere: "Che cosa penserebbe di un'altra persona che avesse il suo identico problema? Penserebbe che si tratti di un fallito, di un incapace o altro?".
Ancora, si può chiedere al paziente di proiettare se stesso nel futuro una volta, immaginato, di aver superato il problema: come si sentirebbe, che percezione avrebbe di sé.
Infine, una volta analizzato e "scomposto" il problema, la psicoterapia diventa un percorso fluido e, probabilmente, più "accelerato".

Conclusioni

Per concludere, vorrei sottolineare come i vari problemi di ordinaria quotidianità da me trattati, per quanto riguarda la psicoterapia, si ripropongono, in realtà, nella vita di tutti i giorni.

Per esempio, la "svalutazione" è un problema che emerge spesso nelle coppie, dove c'è un partner che propone e cerca rimedi (ma perché... non facciamo così?) mentre l'altro/a distrugge ogni proponimento (si... però).

La messa a punto di regole, per trasmettere una certa "presenza educativa" è molto diffuso ai giorni d'oggi, sia a scuola che in famiglia, soprattutto perché viviamo in un periodo dominato dall'effimero sul piano del mercato industriale, con l'illusione di poter "essere ciò che vogliamo" piuttosto che "accettare ciò che siamo".
Tra le "regole" meno accettate oggi vi è la "morte", per cui si vive spesso in modo superficiale e frenetico, come se l'eternità fosse lì ad attenderci.
A questo proposito, mi vengono in mente le parole di Achille citate nel film "Troy", di recente trasmesso in televisione:

"Ti confido un segreto. Gli dei ci invidiano perché siamo mortali, perché ogni giorno che viviamo è come se fosse l'ultimo".

Questa si che è una gran bella regola!

Per quanto riguarda la "visione del mondo", mi viene in mente un detto circa il modo che hanno le persone di comunicare, ossia "parliamo la stessa lingua, eppure non ci capiamo".
Quante volte sarà capitato, infatti, di parlare con qualcuno, discutendo appassionatamente, per poi rendersi conto di non essere sintonizzati sulla stessa linea d'onda.

Ancora, quella che ho chiamato tecnica del "prestigiatore" corrisponde, in fin dei conti, nella vita di tutti i giorni, al concetto di diplomazia, non quella formale, ma quella che sa "oscillare" in modo intelligente tra empatia, coraggio e anche un pizzico d'astuzia.
Infatti, sia le persone troppo rassicuranti, ovvero molto astute, sia quelle eccessivamente dirette, ovvero un po' troppo coraggiose, mancano di una certa quota di empatia, con il risultato che interrompono spesso relazioni di amicizia, sentimentali, di lavoro, ecc.

Con questo, vorrei suggerire che la realtà di tutti i giorni ci fornisce un materiale "clinico" che una buona terapia mette decisamente a "nudo"!

Bibliografia
  • Bellak L., Small L., "Psicoterapia d'urgenza e psicoterapia breve", Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983
  • Bonaiuto P., "Note e appunti di psicologia, parte seconda", Edizioni Kappa, Roma, 1970
  • Caprara G.V., Accursio G., "Psicologia della personalità e delle differenze individuali", Edizione il Mulino, Bologna, 1987
  • Capogna A., Crocetti G., "Le armi di Achille", CiPsPsia Editografica, 2006
  • Cecchini M., "L'Attaccamento infantile negli adulti, II edizione riveduta", Edizioni Psicologia, 1997
  • Crocetti G., "Il bambino nella pioggia", Armando Editore, Roma, 2001
  • Gabbard G.O., "Psichiatria psicodinamica", Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995
  • Holmes J., "La teoria dell'attaccamento, John Bowlby e la sua scuola", Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994
  • Malan D.H., "Psicoterapia in pratica", Nuova Casa Editrice L. Cappelli S.p.A., Bologna, 1981
  • Vopel K.W., "Giochi di interazione per adolescenti e giovani", Editrice Elledici, Torino, 1991
Commenti: 1
1 Claudia alle ore 18:51 del 24/08/2012

Articolo molto reduttivo in termini di idee, contenuti, possibili soluzioni !!!!

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