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Trauma passato e contesto presente: inquadrare il caso clinico senza perdersi

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Trauma passato e contesto presente: inquadrare il caso clinico senza perdersi

L'articolo "Trauma passato e contesto presente: inquadrare il caso clinico senza perdersi" parla di:

  • Lavorare sui ricordi traumatici
  • Il sintomo e la consapevolezza
  • Empatia e congruenza
Psico-Pratika:
Numero 218 Anno 2025

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Articolo: 'Trauma passato e contesto presente: inquadrare il caso clinico senza perdersi'

A cura di: Luisa Fossati
    INDICE: Trauma passato e contesto presente: inquadrare il caso clinico senza perdersi
  • Introduzione
  • La tentazione di iniziare dal trauma
  • Costruire il "libretto di istruzioni" del problema
  • La consapevolezza non basta (ma è un inizio)
  • Tecniche e cornice: uno senza l'altra non basta
  • Empatia e congruenza: bussola e timone della nostra clinica
  • E quindi?
  • Altre letture su HT
Introduzione

Ci sono momenti, all'inizio di una terapia, in cui il rischio più grande non è tanto la complessità del problema, quanto il perdersi in essa; specie quando di mezzo ci sono dei vissuti traumatici.
La storia del paziente si apre davanti a noi, stratificata, emotivamente carica, spesso già attraversata da esperienze terapeutiche precedenti che non hanno portato ai cambiamenti sperati.
E proprio in quei casi, la reazione di scetticismo o fatica è più che comprensibile.

Potremmo aprire un lungo dibattito su tecniche e approcci - su cosa funziona e per chi - ma forse è più utile, soprattutto per chi è agli inizi, spostare lo sguardo altrove: sulla prospettiva con cui si affrontano i problemi clinici.
Perché orientarsi dentro un caso non è questione di avere "la tecnica giusta", ma di costruire una mappa condivisa, passo dopo passo, insieme al paziente.

La tentazione di iniziare dal trauma
Trauma passato e contesto presente: inquadrare il caso clinico senza perdersi

Lavorare sui ricordi traumatici è, certo, una parte centrale della terapia.
Ma non può essere l'unica.
Se isolato dal contesto attuale, il trauma rischia di diventare un capitolo staccato, quasi sterile.
L'intervento può sembrare potente, ma rimanere senza effetti concreti.
Si può rimanere fermi, confusi, frustrati.

Per questo, l'obiettivo iniziale non è "scavare subito nel passato", ma capire il presente: come funziona il sintomo? Cosa lo tiene attivo oggi? Quali sono i meccanismi che si attivano quando si presenta?

Costruire il "libretto di istruzioni" del problema

Ogni sintomo ha un suo linguaggio.
Comprenderlo significa iniziare a costruire una sorta di libretto di istruzioni personalizzato, che aiuti paziente e terapeuta a orientarsi.
È in questo passaggio che, spesso, si accende la prima scintilla del cambiamento: una nuova chiarezza, la sensazione di "vedere" ciò che accade dentro, proprio mentre accade. E si smette, poco a poco, di sentirsi in balia del sintomo.

Pensiamo, per esempio, a chi evita costantemente i confronti sul lavoro.
Magari si scopre che ogni critica del capo riattiva una sensazione viscerale, antica: la paura di essere smascherati come incapaci.
Non è solo disagio.
È un'allerta emotiva, spesso legata a esperienze infantili di giudizio o svalutazione.
E nel momento in cui questa dinamica viene vista, riconosciuta, chiamata per nome, il sintomo inizia a perdere potere.
Si apre uno spazio per reagire in modo diverso.

La consapevolezza non basta (ma è un inizio)

"Razionalmente so perché faccio così, ma non riesco a cambiare".
Lo sentiamo spesso.
Ed è vero: la consapevolezza cognitiva non è sufficiente.
Ma è un primo passo.
Il punto chiave è riconoscere il momento preciso in cui qualcosa si attiva: cogliere l'onda emotiva, sentirne la radice.
È lì che possiamo distinguere il presente dal passato, il comportamento attuale dal significato antico che ancora lo influenza.

E proprio in quel punto - così sottile, ma così potente - nasce la possibilità di scegliere una strada diversa, quella di dire: "non sono sbagliato, sto reagendo a qualcosa che non c'entra più con il qui e ora".

Il ricordo traumatico, così, smette di essere un blocco isolato e si ricolloca dentro un sistema.
Un sistema che ha un senso, che può essere osservato, compreso, trasformato.

Tecniche e cornice: uno senza l'altra non basta

Come dicevamo all'inizio, le tecniche terapeutiche, per quanto raffinate, non funzionano di per sé, applicate in modo freddo.
Acquisiscono potenza solo quando sono inserite in una cornice di senso, in un percorso coerente.
E questa cornice non si costruisce con il protocollo giusto, ma con la relazione: una relazione fatta di sicurezza, fiducia e tempo.

Solo dentro uno spazio sicuro, l'ingranaggio dei problemi si lascia esplorare davvero.
Solo lì si crea quella "attenzione duale" fondamentale per il lavoro sul trauma, quella in cui si può guardare al dolore passato senza perdere di vista la sicurezza nel presente.

Empatia e congruenza: bussola e timone della nostra clinica

Nel mio lavoro clinico, l'empatia è uno strumento guida.
Non parlo di simpatia o compassione, ma della capacità di entrare in risonanza emotiva con l'altro, restando centrata nel mio ruolo.
Anche nei momenti di forte intensità, come nel lavoro sul trauma, mantengo una presenza stabile, con lo sguardo sulla direzione della relazione terapeutica.

Accanto all'empatia, la congruenza interna ha un valore orientativo fondamentale.
Ascolto non solo il paziente, ma anche ciò che accade in me mentre l'altro parla.
Le mie risonanze diventano indicatori diagnostici, aiutandomi a cogliere ciò che viene comunicato nel non detto: nei silenzi, nei gesti, nelle incoerenze tra parole e tono.
È spesso lì che emerge il cuore del problema.

E quindi?

Orientarsi in un caso clinico non significa avere tutte le risposte in partenza, ma saper costruire una direzione di senso insieme alla persona.
Significa tenere insieme tecnica e ascolto, metodo e intuizione, empatia e confini.
Non serve conoscere subito tutta la mappa: basta iniziare a tracciarla, insieme.
Osservare i segnali, ascoltare i sintomi, riconoscere ciò che accade dentro e fuori la relazione.
È un processo graduale, che richiede pazienza, rigore e presenza.
Ma è proprio in questa complessità che il lavoro clinico trova la sua bellezza: nel momento in cui, anche in mezzo al caos apparente, si comincia a intravedere una direzione.
Ed è lì che il cambiamento diventa possibile.

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