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Psicodiagnosi: da Socrate al DSM-V, passando per l'ICD Tra soggettività e oggettività: implicazioni e risvolti
L'articolo " Psicodiagnosi: da Socrate al DSM-V, passando per l'ICD" parla di:
- La psicopatologia tra "spiegazione" e "comprensione"
Psicodiagnosi, dal manuale all'approccio clinico al paziente Evoluzione dei sistemi classificatori e diagnostici
Articolo: 'Psicodiagnosi: da Socrate al DSM-V, passando per l'ICD Tra soggettività e oggettività: implicazioni e risvolti'
INDICE: Psicodiagnosi: da Socrate al DSM-V, passando per l'ICD
- Introduzione
- Dietro le quinte della psicopatologia
- Le esperienze interiori e l'intuizione analogica
- L'essenza della Psicodiagnosi
- Psicodiagnosi "da Manuale"
- Origini ed evoluzioni dei sistemi classificatori e diagnostici: DSM e ICD
- Conclusioni
- Bibliografia
- Altre letture su HT
Introduzione
Sulla Psicodiagnosi sono state scritte centinaia e centinaia di pagine con lo scopo, a mio avviso, di dare una veste scientifica alla
personale capacità del clinico di conoscere a fondo una persona.
In realtà si tratta di un percorso molto complesso, che non ha a che fare solo con i test e con la raccolta di dati anamnestici, ma ha
implicazioni di tipo filosofico, etico, esistenziale, relazionale e, per finire, anche personale; implicazioni, queste, che risalgono fin ai
tempi di Socrate.
Quando Socrate sottolineava che il vero sapere era di non sapere, diceva due cose molto serie, con cui mi trovo personalmente
d'accordo:
- da un lato che non è dato all'uomo sapere niente delle cose dell'essere e della realtà in sé (in senso assoluto) e che,
dunque, l'impegno dell'uomo in quanto uomo è qua fra gli uomini, e non fra i libri che trattano dell'uomo in senso astratto;
- dall'altro lato che l'uomo, che agisce e pensa correttamente, non ha una volta per tutte la formula assoluta adatta a ogni situazione, ma
deve sempre ricercare cosa sia il bene (o la virtù) in rapporto alle concrete condizioni date.
In altri termini, il sapere di cui parla Socrate si ottiene attraverso il ragionare quando è bene fare quella o questa
azione, che è buona in quanto so che ora è bene farla.
E lo stesso sapere non si apprende semplicemente attraverso i libri o i maestri, ma è un sapere che scaturisce dall'essere consapevole
ragionando, interrogando se stessi, ossia dal conoscere se stessi.
Trovo sorprendente come tali riflessioni, "partorite" da un filosofo nato nel 469 a.C. (fondatore di arti come l'ironia, la dialettica e la
maieutica), configurino il senso dell'eterna diatriba tra scienze della natura e scienze dello spirito, tra spiegazione e comprensione.
In ambito clinico-diagnostico tale dialettica profila due distinti e antitetici approcci: uno "neutrale" e oggettivo il cui
scopo è valutare la realtà psicofisica del paziente e l'altro "partecipato" e soggettivo che vuole collocare
l'osservatore nell'oggetto osservato.
Dietro le quinte della psicopatologia
Al suo esordio la psicopatologia nasceva come patologia, una branca della Medicina, il cui scopo era per lo più lo studio delle
"imperfezioni" e delle "irregolarità" organiche/fisiologiche dell'anima, piuttosto che una reale ricerca sulla sofferenza dell'anima:
la patologia psichiatrica di Kraepelin ne era l'esempio.
Il postulato principale era il seguente:
sintomo = disturbo = deviazione di una funzione
In particolare, nella seconda metà del secolo XIX si sviluppava una "nuova" Psichiatria, la cosiddetta "Psichiatria ufficiale", accolta
a pieni voti dall'ambiente medico-universitario, che si basava essenzialmente su due punti: la riduzione della malattia mentale a
malattia organica e la classificazione sistematica delle malattie mentali.
Tale approccio incontra il favore anche della Psicologia, di ciò ne è prova una puntualizzazione, offerta da William James,
che sottolineava l'importanza di attenersi:
«al punto di vista delle scienze naturali... la Psicologia, una volta stabilita la correlazione empirica delle varie forme di
pensiero o di sentimenti con condizioni definite del cervello, non può andare più in là, per meglio dire, non può
andare più in là come scienza naturale. Se va oltre diviene metafisica... le esperienze somatiche, e più specialmente quelle
cerebrali, prendono dunque posto fra le condizioni della vita mentale che debbono formare l'oggetto della Psicologia» (cit. in W.
James, "Principi di Psicologia" (1890), trad. it., Società Editrice Libraria, Milano, 1905, IO, XIII).
Quindi la Psichiatria, all'epoca, non era che lo studio e la definizione delle patologie cerebrali, il cui principale esponente era
Wilhelm Griesinger (Neurologo e Psichiatra tedesco, 1861-79). Era sua la famosa frase «le malattie mentali sono malattie
cerebrali».
Di lì a poco, un suo connazionale, lo Psichiatra Emil Kraepelin (1855-1926) integrava questa impostazione organicista
con una descrittiva-classificatoria, considerando la malattia mentale come un fenomeno naturale da descrivere, classificare e ricondurre
alle sue origini organiche attraverso i momenti clinici di esordio, evoluzione ed esito.
In quest'ottica si privilegiava la malattia, come entità astratta, rispetto alla concretezza del paziente. Più o
meno nello stesso periodo, nelle opere di Sigmund Freud e di Karl Jaspers si assisteva a un rovesciamento di questa posizione, in
quanto non si prendeva più in considerazione la temporalità clinica del sintomo (esordio, decorso, esito) ma il "tempo storico".
Il sintomo acquistava valore se veniva riferito non al soma, attraverso il quale spesso si esprime, ma all'esperienza storica
della persona che lo manifesta.
Questo comportava un'impostazione molto diversa nei confronti del paziente e della sua vita psichica. Infatti, mentre possiamo "spiegare"
i fenomeni naturali per mezzo dell'osservazione (metodo empirico, proprio delle scienze naturali), la vita psichica la possiamo "comprendere"
attraverso le auto descrizioni dei pazienti (metodo introspettivo, proprio delle scienze dello spirito).
La dialettica tra comprensione e spiegazione costituiva il nucleo centrale della riflessione di Karl Jaspers, il fondatore della
definitiva Psicopatologia scientifica.
Uno dei punti essenziali di Jaspers era appunto che il confronto con l'Erlebnis, ossia il vissuto, non sopportava l'opposizione
soggetto-oggetto, come accadeva precedentemente secondo un'ottica "riduzionista" della malattia mentale.
Il confronto diretto del Medico, del clinico, con l'Erlebnis del paziente elimina l'opposizione soggetto-oggetto. Come spiegava chiaramente
Jaspers (1913):
«Il primo passo per cogliere scientificamente lo psichico è discernere, delimitare e descrivere determinati fenomeni
vissuti... Ciò che viene attualizzato nella fenomenologia lo sappiamo solo indirettamente dalle auto descrizioni dei malati che
comprendiamo in analogia alle nostre esperienze interiori».
(cit. in K. Jaspers, "Psicopatologia generale" (1913), trad. it. della 7° edizione tedesca, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1964, II,
28)
Ricollegandoci a Socrate - se con la Psichiatria di Kraepelin e con la Psicologia di James si andava nella direzione opposta agli insegnamenti
del Filosofo, per cui la scienza si rivolgeva all'uomo in quanto entità, all'uomo astratto e a non a quello concreto - con la rivoluzione
di Freud e Jaspers l'orizzonte si ribalta.
Come per Socrate anche per questi autori l'uomo può essere conosciuto solo partendo dall'uomo stesso, dall'Erlebnis come insegna Jaspers.
Le esperienze interiori e l'intuizione analogica
Le nostre esperienze interiori sono spesso condizionate da due percezioni dicotomiche del mondo, che racchiudono l'eterna contrapposizione tra
scienze naturali e scienze dello spirito: mentre da un lato si avverte la percezione di essere circondati da un mondo inanimato, dall'altro si ha
l'impressione che l'anima sia ovunque, tanto negli oggetti artificiali quanto in quelli naturali (animismo).
La prima è tipica delle scienze naturali, per cui tentiamo di spiegare aspetti dell'essere umano in analogia con il mondo
inanimato. È comune sentire espressioni del tipo "La mente è una macchina perfetta" oppure "meccanismi di difesa",
riferendosi a persone.
La seconda, invece, è tipica delle scienze spirituali, oltre che di alcune culture e del modo di pensare dei bambini in
età prescolare (pensiero magico). Questi ultimi in particolare, nell'intento di trovare e dare senso a ciò che esperiscono,
tendono a mettere in relazione tra loro gli eventi ma in modo non lineare, analogico, non sequenziale.
Ad esempio, se si chiede a un bambino di 4 anni: "Perché la barca resta a galla mentre il sasso va a fondo?", una delle
possibili risposte potrebbe essere: "Perché la barca è più intelligente del sasso".
In altre parole, il bambino intuisce i fenomeni naturali e artificiali in analogia con le sue esperienze e con il suo grado di sviluppo
intellettivo che, nell'insieme, formano il suo particolare Erlebnis.
È curioso notare che, come il bambino attribuisce un'anima agli oggetti artificiali per "comprendere" determinati fenomeni fisici
così, all'inverso, alcuni Medici attribuiscono caratteristiche inanimate per "spiegare" le condizioni psicofisiche di un paziente.
Mi riferisco a quei Medici e Psichiatri che preferiscono il primo tipo di percezione (ossia quella che discende dalle scienze della natura) e
utilizzano metafore estrapolate dal mondo inanimato. Per esempio, mi capita continuamente di sentire parlare del corpo come una "macchina da
riparare" o addirittura, tra alcuni Psichiatri, pensare alla psiche come a un televisore o altro elettrodomestico cui basta dare un "botta"
per rimetterla a posto.
In questo modo si rendono così poco disponibili ad ascoltare il paziente, in quanto essere vivente in continua
trasformazione, e creano una barriera rispetto alle proprie esperienze interiori.
A questo proposito riporto un brano dello Psicoanalista inglese Wilfred R. Bion che trovo illuminante:
«Noi ci fondiamo su un assunto: che le limitazioni dello psicotico siano dovute a una malattia e che invece quelle dello
scienziato non lo siano... (in realtà) il nostro rudimentale equipaggiamento... è adeguato soltanto se trattiamo problemi connessi
con l'inanimato. Dovendo trattare con la complessità della mente umana, (lo Psicologo) deve diffidare di ogni metodo scientifico, anche
nei casi in cui questo sia accettato da tutti: può darsi, infatti, che la debolezza di esso sia molto più vicina di quanto non
sembrerebbe, a un'indagine superficiale, alla debolezza del pensiero psicotico».
(W.R. Bion, "Apprendere dall'esperienza", 1972)
È bene ricordare che l'uomo, con la sua mente e la sua anima, trascorre la propria esistenza all'interno di un mondo sia naturale sia
artificiale (costruito dall'uomo stesso) ed è proprio da questi mondi, oltre che dalla propria realtà fisica (percezioni corporee),
che prendono vita le esperienze interiori.
La distanza, solo apparente, tra le scienze
Nella prima metà del '900, le scoperte nel campo della fisica avevano ulteriormente alimentato il superamento della classica
opposizione soggetto-oggetto, tanto nelle scienze naturali quanto in quelle umane. Infatti, con lo sviluppo della meccanica quantistica, il
ruolo dell'osservatore diveniva una componente essenziale per definire un evento.
A questo proposito Werner Karl Heisenberg (1930), uno dei fondatori della nuova Fisica, poneva in rilievo che i Fisici dovevano
rinunciare all'idea che nello spazio e nel tempo esistevano eventi indipendenti dalla nostra capacità di osservarli e che, pertanto,
le leggi della natura non avevano più a che fare con le particelle elementari, bensì con la conoscenza che noi abbiamo di queste
particelle, cioè con il contenuto della nostra mente.
Quindi, per comprendere a fondo la vera condizione psicofisica di un paziente, dobbiamo prima essere capaci di lasciar emergere la nostra vera
personalità da ciò che impariamo attraverso teorie, metodi e tecniche. Insomma, per dirla con le parole di Socrate, bisogna far
sì che ciascuno possa "partorire" (maieutica) se medesimo, per mezzo della conquista della consapevolezza di sé.
Credo che la citazione del seguente brano dello Psichiatra e Ipnoterapeuta Milton H. Erickson palesi fortemente il concetto a cui mi
riferisco:
«Una delle cose più importanti da ricordare a proposito della tecnica... è la disponibilità a imparare
questa o quella tecnica, e poi a riconoscere che voi, come personalità individuale, siete ben diversi da ognuno degli insegnanti che
vi hanno insegnato una tecnica particolare. Dovete estrarre dalle varie tecniche gli elementi particolari che vi permettano di esprimervi come
personalità.
La seconda cosa in ordine di importanza, per quanto riguarda la tecnica, è la vostra consapevolezza del fatto che ogni paziente che si
rivolge a voi rappresenta una personalità diversa, una mentalità diversa. Il vostro approccio nei suoi confronti deve essere in
termini di lui come persona, con una particolare considerazione per il momento e la situazione immediata».
(M.H. Erickson, "Le nuove vie dell'ipnosi", pagg. 858 e 863-64)
Detto questo, aggiungerei che oggi possiamo definire la psicopatologia come il "regno" del sintomo e del segno. Mentre il sintomo
è dato soggettivamente dal paziente, dalle sue comunicazioni, il segno è il dato che il Medico - lo Psichiatra o
lo Psicologo - rileva oggettivamente attraverso un esame obiettivo.
Così di fronte a uno stesso sintomo, sentiamo che diversi pazienti utilizzano diverse espressioni (ovvero diverse elaborazioni di
esperienze passate), come per esempio: «Questo è un dolore come se qualcuno mi stesse pungendo», oppure
«come se qualcuno mi stesse dilaniando» o ancora «come se stessi soffocando».
In qualche caso la sensazione può coincidere con un dilaniare, un pungere o un soffocare reali, e trova così una corrispondenza
con il dato medico oggettivo, in altri no.
Comunque sia, non potremo descrivere - né tanto meno comprendere - una certa sensazione se non avessimo avuto precedenti percezioni
"reali" da cui "prendiamo in prestito", anche con l'aiuto dell'immaginazione.
Citando lo Psicoanalista cileno Matte Blanco: «Cercare di descrivere la natura del dolore per mezzo dei paragoni equivale
a cercare di conoscere il dolore» (I. Matte Blanco, 1975).
È come se questo mondo più intimo della mente, così distante dal mondo esterno, non possa esistere senza quest'ultimo
con cui ha, allo stesso tempo, qualche affinità.
In un certo senso potremmo dire lo stesso per il rapporto esistente tra scienze naturali e scienze dello spirito, come se si compenetrassero
l'una nell'altra.
L'essenza della Psicodiagnosi
Con Psicodiagnosi generalmente si intende quel processo di conoscenza - dall'etimologia della parola greca δια
γνωσισ, ovvero "conoscenza attraverso" - che avviene da parte di uno Psicologo o Psichiatra nei confronti
di un individuo.
Tale processo si sviluppa all'interno di un rapporto interpersonale, durante il quale l'esperto - servendosi della
metodologia e degli strumenti della Psichiatria, della Psicologia clinica e della Psicometria (osservazione, colloquio e test psicologici) -
raccoglie informazioni che gli permettano di compiere un'analisi e una descrizione della personalità (Falcone A., 1999).
Tale processo è inoltre volto a conoscere la storia personale, lo stile di vita, le capacità e le risorse del paziente, nella
situazione attuale e antecedente la consultazione.
Fine ultimo è quindi la conoscenza della persona nella sua interezza allo scopo di promuoverne il benessere attraverso un
trattamento eventuale o semplicemente grazie all'acquisizione da parte del paziente di maggiore consapevolezza di sé, favorita della
restituzione effettuata dal clinico a seguito del processo diagnostico stesso (Falcone A, 1999).
La Psicodiagnosi, in particolar modo quella proposta dalla Psicologia clinica, è quindi fondamentalmente un'esplorazione
condotta da uno Psicologo o da uno Psichiatra, in cui non esiste una ricerca aprioristica di un dato atteso. Di fatti l'esito o risultato
è una scoperta dipendente dalla capacità del clinico di utilizzare gli strumenti adatti, all'interno di una relazione
adeguata, e in base alle caratteristiche dell'individuo che ha di fronte.
Psicodiagnosi "da Manuale"
Ora chiediamoci quanto la Psicodiagnosi, così come tratteggiata più sopra, rifletta le categorie diagnostiche previste
dall'attuale sistema di classificazione in assoluto più utilizzato: il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders).
Questo è un sistema di classificazione multiassiale e ateorico, fondato cioè su criteri empirici; criteri che, di fatto,
sono molto più vicini a un'indagine psichiatrica, volta a "spiegare" la malattia mentale cogliendone l'essenza in modo assoluto, senza
esplorare e comprendere la persona e la sua reale esistenza.
Nel corso delle successive edizioni del DSM abbiamo assistito spesso a un aumento numerico delle possibili categorie diagnostiche. Forse
questo è dovuto al fatto che è molto improbabile, a mio avviso, inquadrare le persone all'interno di specifiche categorie
diagnostiche, tant'è che non possiamo fare a meno della classica formula di rito "Non Altrimenti Specificato" (N.A.S.).
Gli assi che più si avvicinano alla conoscenza concreta della persona in sé sono l'Asse IV (problemi psicosociali e
ambientali) e l'Asse V (valutazione globale del funzionamento), oltre alla scala del Funzionamento Difensivo. Quest'ultimo, in particolare,
risalta il modo di porsi del paziente nei confronti della realtà oltre che di se stesso.
Trovo che questo sistema di classificazione sia molto valido per escludere una diagnosi rispetto all'altra, specie lì dove i criteri
possono confondersi, attraverso il metodo degli Alberi Decisionali per la Diagnosi Differenziale.
Tuttavia con la prossima edizione del DSM V, in uscita a maggio 2013, ci sarà ben poco da escludere, poiché si prospetta
direttamente l'esclusione dal manuale di alcuni disturbi di personalità, quali quello paranoide, istrionico, schizoide e dipendete.
Pare, invece, che il disturbo narcisistico di personalità sia di nuovo tornato fra gli umani!
In particolare, «nel mese di giugno 2011, l'APA ha proposto una nuova versione delle diagnosi di personalità, che prevede
il "re-inserimento", nel Manuale diagnostico, del disturbo narcisistico di personalità, in tal modo accogliendo, anche se parzialmente,
le osservazioni dei numerosi clinici, ricercatori e psicoterapeuti che vedevano nell'eliminazione di tale disturbo l'affacciarsi di un pericoloso
contrasto tra realtà clinica e le categorie diagnostiche previste dal DSM-5» (cit. in "Notiziario dell'Ordine degli Psicologi
del Lazio", 2011 2/3, pag. 15).
Allora da brava Psicologa clinica mi propongo, in un modo un po' provocatorio, di fare "un'anamnesi" del DSM stesso, individuando i retroscena,
i contesti, i limiti, i conflitti etc. che si celano dietro un sistema di classificazione, da molti ritenuto la Bibbia della Psichiatria,
la cui trama è strettamente intrecciata con quella di un altro importante sistema di classificazioni, l'ICD, la cui paternità
è ben diversa dal DSM.
Potremmo dire, infatti, che entrambe i sistemi di classificazione provengono dalla stessa madre, ossia dalla medesima intenzione, ma
i padri, che rappresentano l'impatto sulla realtà, sono decisamente diversi!
Alcune notizie potrebbero apparire un po' noiose, ma credo valga la pena conoscere il background del sistema di classificazione non solo
più utilizzato, ma anche necessario per valutare l'idoneità a esercitare la professione di Psicologo; infatti, una delle quattro
prove dell'Esame di Stato prevede la descrizione e la diagnosi di un caso clinico, il più delle volte valutato seguendo i criteri del DSM.
Cominciamo, allora, dalla raccolta dei "dati anamnestici".
Origini ed evoluzioni dei sistemi classificatori e diagnostici: DSM e ICD
Il primo tentativo per la raccolta di dati sulle malattie mentali risale al censimento americano del 1840, che permise di registrare la
frequenza dei casi Idiozia/Follia. Quarant'anni dopo, nel 1880, vi fu un nuovo censimento in cui furono distinte 7 categorie di malattie mentali:
mania, melanconia, monomania, paresi, demenza, dipsomania, epilessia.
Nel 1917, il comitato per le statistiche dell'American Medico-Psychological Association (vecchio nome dell'APA) formulò un piano
per raccogliere dati omogenei tra i vari ospedali per malattie mentali e collaborò con la Commissione Nazionale di Igiene Mentale alla
pubblicazione dello Statistical Manual for the Use of Institutions for the Insane, inserendovi 22 categorie nosografiche.
L'American Psychiatric Association collaborò poi all'elaborazione della Standard Nomenclature of Diseases and Pathological
Conditions, Injuries and Poisoning (1920, Washington Governement Printing Office), iniziata in seguito alla Conferenza Nazionale tenuta a
New York. Si rese allora necessario uniformare il vecchio manuale statistico a uso degli ospedali per i disturbi psichiatrici che, nel
1934, includeva anche il sistema di classificazione della nuova Standard Nomenclature of Diseases.
Era la prima volta che si sottolineava la differenza tra un sistema di nomenclatura e un sistema di classificazione
statistica, entrambi finalizzati alla raccolta di dati sulla malattia mentale.
Si trattava di un sistema di classificazione oggettivo, basato sui dati raccolti negli ospedali psichiatrici, che non
teneva conto perciò delle condizioni sociali o delle caratteristiche di personalità dei pazienti.
Successivamente, nel 1945, l'Armed Forces Institute of Pathology (AFIP), fondato nel 1862 a Washington (istituto concepito per la
diagnosi, la consulenza, l'educazione e la ricerca in patologia) e la Veteran Administration (il cui sistema ospedaliero crebbe da 112
ospedali nel 1946 a 176 ospedali nel 1956) ampliarono e modificarono questa classificazione includendo, ad esempio, anche i disturbi di
personalità (Psychopathic Personality).
La prima versione del DSM (DSM-I) risale al 1952 e fu redatta dall'American Psychiatric Association (APA), come replica degli operatori
nell'area del disagio mentale all'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che nel 1948 aveva pubblicato un testo, la
classificazione ICD - International Statistical Classification of Disease, Injuries and Causes of Death - esteso pure all'ambito
dei disturbi psichiatrici.
In particolare, il capitolo V dell'ICD, Patologie mentali e del comportamento, include disturbi psichici e comportamentali:
- di natura organica,
- dovuti all'uso di sostanze psicoattive,
- affettivi,
- nevrotici,
- legati a disfunzioni fisiologiche,
- disturbi della personalità,
- dello sviluppo psicologico e comportamentali.
Questa prima classificazione (ICD) elaborata dall'OMS rispondeva soprattutto all'esigenza di cogliere la causa delle patologie,
fornendo per ogni sindrome o disturbo una descrizione delle principali caratteristiche cliniche e indicazioni diagnostiche.
L'ICD, quindi, si delineava come una classificazione causale, fondata sul postulato:
eziologia → patologia → manifestazione clinica
Da questo momento assistiamo a due evoluzioni parallele:
- da una parte l'evoluzione dell'ICD nelle successive classificazioni dell'ICDH (1980) e dell'ICF (2001) per opera dell'OMS;
- dall'altra l'evoluzione del DSM-I in DSM-II (1968), DSM-III (1980), DSM-III-Revised (1987), DSM-IV (1994), il DSM-IV-TR (2000) e, infine,
il DSM-V, che sarà pubblicato nel 2013, per opera dell'APA.
L'evoluzione dell'ICD ha comportato modifiche sostanziali nell'approccio alla malattia in generale, e non solo quella mentale. In particolare,
la classificazione puramente causale dell'ICD rivelò ben presto vari limiti di applicazione. Ciò indusse l'OMS a elaborare
un nuovo manuale di classificazione, in grado di focalizzare l'attenzione non solo sulla causa della patologia, ma anche sulle loro conseguenze.
Da ciò nasce l'ICDH (International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps), ossia la Classificazione
Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap, cogliendo - oltre la causa della patologia - anche l'influenza
che il contesto ambientale esercita sullo stato di salute della persona.
Con l'ICDH non si parte più dal concetto di malattia intesa come menomazione (fisica o psichica), ma dal concetto di salute,
intesa come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale, che riguarda l'individuo nella sua globalità e l'interazione con
l'ambiente.
In particolare, la multidimensionalità del concetto di salute che caratterizza l'ICDH rappresenta un prisma che riflette diverse
possibilità di valutare le conseguenze della malattia:
malattia → menomazione → disabilità → handicap
Mentre la menomazione è il danno organico e/o funzionale, la disabilità va intesa come perdita di capacità operative
subentrata nella persona a causa della menomazione, infine l'handicap, ovvero lo svantaggio, è la difficoltà che l'individuo
incontra nell'ambiente circostante a causa della menomazione.
In altre parole il concetto stesso di salute non significava più semplicemente "assenza di malattie", ma faceva affidamento alla
capacità di guarigione e potenziale cambiamento della persona - e non alla sua patologia - in base alle risorse residue e
alla possibilità offerte dal contesto ambientale.
Direi che si tratta proprio di una bella rivoluzione!
In modo analogo, la prima versione del DSM (1952) enfatizzava il concetto di reazione, intendendo il disturbo mentale come reazione della
personalità a fattori sociali, biologici e psicologici. Per esempio, molte volte erano citati termini come "reazione schizofrenica"
oppure di "reazione affettiva" etc. e in questo, forse, anticipava la versione dell'ICDH del 1980.
Tuttavia, nel 1968, nella seconda edizione del DSM non si leggeva mai il termine "reazione" e venivano utilizzate spesso definizioni che
comparivano nell'ICD, ovvero basate sul concetto obsoleto di cogliere la causa della malattia, lasciando sullo sfondo le conseguenze funzionali
e sociali della stessa.
Nonostante questo passo all'indietro, particolarmente progressiva appare la settima ristampa del DSM-II, che nel 1972 espulse
l'omosessualità dalla classificazione psicopatologica.
Nel 1973 il termine "Omosessualità" venne sostituito con "Omosessualità Egodistonica".
Con il DSM-III nel 1980 (stesso anno di pubblicazione dell'ICDH) si notò un abbandono definitivo della parola "nevrosi",
utilizzata nelle precedenti versioni, e si adottò un approccio costituito da 5 assi per la valutazione diagnostica:
- ASSE I: disturbi clinici
- ASSE II: disturbi di personalità e ritardo mentale
- ASSE III: condizioni mediche acute e disordini fisici
- ASSE IV: condizioni psicosociali e ambientali che contribuiscono al disordine
- ASSE V: valutazione globale del funzionamento
La classificazione doveva essere solo descrittiva, ovvero nosografica (i quadri sintomatologici erano descritti a prescindere
dal "vissuto" del singolo, ed erano valutati su basi statistiche casistiche frequenziali).
Mentre la nomenclatura (ossia la terminologia) era sempre più ateorica, ossia non doveva basarsi su un approccio teorico,
né comportamentista, né cognitivista, né psicoanalitico etc., ecco perché venne eliminato il termine di matrice
psicoanalitica nevrosi.
Quindi, se da un lato possiamo intravedere un passo in avanti nella valutazione diagnostica della malattia mentale, andando nella stessa
direzione dell'OMS (vedi ASSE IV), dall'altra sembra di tornare indietro nella storia della psicopatologia.
In questa terza edizione del DSM la malattia mentale viene spogliata del vissuto (Erlebnis) del paziente, nonché
del punto di vista teorico di chi l'osserva, viene quindi nuovamente enfatizzata l'opposizione soggetto-oggetto, "riducendo" la valutazione
della malattia mentale ai metodi delle scienze naturali, che cercano di "spiegare" piuttosto che di "comprendere" il paziente,
anche se non siamo ritornati proprio al punto in cui le malattie mentali erano considerate al pari delle malattie cerebrali...
Tuttavia vorrei aggiungere che, sia nel caso di un disturbo con danno della funzione cerebrale che di un disturbo di origine psicogenetica,
le esperienze interiori della persona hanno sempre un loro peso significativo.
A questo proposito mi piace citare un brano tratto da un romanzo di Richard Powers, "Il fabbricante di eco", (2008). Si tratta
di una chiarificazione data da un Neurologo, G. Weber, uno dei protagonisti del romanzo, durante una trasmissione televisiva:
«... il cervello non è una macchina, non è il motore di un'automobile e nemmeno di un computer. Le descrizioni
puramente funzionali celano quanto rivelano.
È impossibile capire il cervello di un individuo senza tener conto della storia privata, delle circostanze, della personalità...
dell'intera persona, che travalica la somma di moduli meccanici e le carenze localizzate».
(pag. 292-293)
Con il DSM-IIIR, nel 1987, assistiamo a diversi cambiamenti.
Prima di tutto venne rimossa la categoria diagnostica "Omosessualità Egodistonica", introdotto l'indice dei sintomi e, in alcune sezioni,
il termine "cognitivo" sostituì quello di "organico".
Nel DSM-IV (1994), in particolare, venne rimosso il concetto di "organico" in favore di "condizioni mediche generali". Inoltre, vi fu
anche una revisione radicale del capitolo sui disturbi che riguardano l'infanzia, la fanciullezza e l'adolescenza.
Il DSM-IV-TR (2000) non presentò particolari cambiamenti nei criteri e nella nomenclatura, se non per i sintomi seguenti:
- sindrome di Tourette
- demenza dovuta a morbo di Alzheimer o ad altra condizione medica generale
- disturbo di personalità dovuta a condizione medica generale
- esibizionismo, frotteurismo, pedofilia, sadismo, voyeurismo
Complessivamente, il DSM-IV comprende 370 disturbi mentali.
In queste ultime due versioni la bilancia oggettività-soggettività pende più chiaramente verso la prima, vista
l'accentuazione dell'Asse III, Condizioni Mediche Generali che, tuttavia, possono essere correlate ai disturbi mentali in vari modi.
Per esempio, se un disturbo mentale è la conseguenza fisiologica diretta di una condizione medica generale, si fa diagnosi di Disturbo
Mentale dovuto a Condizione Medica Generale, oppure un disturbo mentale sull'Asse I può rappresentare una reazione psicologica a una
condizione medica generale.
Quindi in nessun modo la malattia mentale si sovrappone o si confonde con una condizione medica generale, ma da questa ne è
differenziata. Quindi, come ho detto nel paragrafo precedente, il pregio di questo sistema di classificazione è il suo potere di
discriminazione tra una categoria diagnostica e l'altra, pur mettendole in relazione.
Più o meno nello stesso periodo, mentre il DSM si riempiva di un numero sempre maggiore di categorie diagnostiche per classificare
i diversi disturbi mentali (probabilmente perché non è impresa facile "inquadrare" clinicamente una persona all'interno di una
singola categoria), nasce l'ICF, ossia la Classificazione Internazionale del Funzionamento, Disabilità e Salute, alla cui stesura
perviene l'OMS il 22 maggio 2001.
L'ICF è uno strumento di classificazione innovativo, multidisciplinare e dall'approccio universale. Si delinea come una
classificazione che vuole descrivere lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti esistenziali (sociale, familiare,
lavorativo) al fine di cogliere le difficoltà che nel particolare contesto socio-culturale possono causare disabilità.
A differenza delle precedenti classificazioni (ICD, ICDH), dove veniva dato ampio spazio alla descrizione delle malattie dell'individuo,
ricorrendo a termini quali malattia, menomazione e handicap (con riferimento a situazioni di deficit), nell'ultima
classificazione l'OMS fa riferimento a termini che analizzano la salute dell'individuo in chiave positiva (funzionamento e salute),
arrivando alla definizione di disabilità intesa come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole, da ciò proviene
il concetto di "diversamente abile" in opposizione al termine "disabile".
In questo senso, l'applicazione universale dell'ICF emerge nella misura in cui la disabilità non viene considerata un problema
di un gruppo minoritario all'interno di una comunità, ma un'esperienza che tutti, nell'arco della vita, possono sperimentare.
Ognuno di noi, infatti, può trovarsi in un contesto ambientale precario e ciò può causare disabilità.
È in tale ambito che l'ICF si pone come classificatore della salute, anziché della malattia, prendendo in
considerazione gli aspetti sociali della disabilità: se ad esempio una persona ha difficoltà in ambito lavorativo, ha poca
importanza se la causa del suo disagio è di natura fisica, psichica o sensoriale.
Ciò che importa non è classificare il suo deficit, ma intervenire sul contesto sociale costruendo reti di servizi significativi
che riducano la disabilità.
In questo senso il DSM funziona nella direzione opposta, nel senso che rimane "fermo" a spiegare la malattia mentale considerandola come
un'esperienza di pochi, che si manifesta attraverso determinati sintomi, lasciando da parte il contesto entro cui la malattia prende piede.
In altri termini, mentre l'ICF considera la persona all'interno del "sistema" che, allo stesso tempo, gioca da facilitatore per l'inserimento
sociale oppure pone ostacoli importanti (es. barriere architettoniche, pregiudizi etc.), il DSM è focalizzato sull'individuo
e la sua malattia.
Se rappresentiamo il "sistema" come una cassetta di mele e le mele come i singoli individui, possiamo dire che mentre il DSM va alla ricerca
della "mela marcia", l'ICF focalizza l'attenzione sulla cassetta stessa.
È facile notare come il sistema di classificazione dei disturbi mentali, il DSM, sia rimasto indietro nel tempo da un punto di vista
degli obiettivi e dell'approccio al paziente, rispetto al sistema di classificazione delle disabilità.
Infatti, si tratta principalmente di un metodo descrittivo-nosologico, basato sulla classificazione di quadri sindromici riferibili a sintomi
specifici (es. allucinazione acustica nella schizofrenia paranoide).
Effettivamente il DSM è, al momento, al centro di numerose critiche dal momento che non a tutti, compresa la sottoscritta,
sembra uno strumento adeguato, o quanto meno esaustivo, per valutare la situazione clinica di una persona: il DSM richiede un minimo di sintomi
raccolti (cut-off), per poter effettuare una corretta diagnosi.
Ad esempio, per il Disturbo Antisociale di Personalità si parla di "quadro pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti
degli altri" e di tre o più caratteristiche elencate fra le seguenti: disonestà, incapacità di conformarsi alle norme
sociali, irritabilità e aggressività.
In questo modo la scelta del cut-off porterebbe a diagnosticare un disturbo mentale a una persona che possiede tre delle caratteristiche
richieste, allo stesso modo di una persona che le possiede tutte e "a scapito" di chi ne presenta soltanto due.
In sostanza il DSM riproduce un modello neo-positivista della "spiegazione", utilizzando un modello descrittivo della malattia mentale
su basi di "etichettamento" non necessariamente corrispondenti a realtà clinica del paziente, realtà a cui è possibile
accedere prevalentemente attraverso il metodo introspettivo, ovvero entrando nel merito delle esperienze interiori tramite le analogie con cui,
quasi spontaneamente, il paziente riporta i propri vissuti nonché le proprie risorse esistenziali.
Altre critiche riguardano l'etica: molte diagnosi, specie quelle relative alla sezione sui disturbi dell'umore, hanno portato alla vendita
di molti farmaci, tanto che si è parlato di "malattie finte", disturbi creati ad hoc (attraverso, per esempio, un semplice
"accorciamento" del cut-off per l'inclusione in una diagnosi) per lanciare nuovi farmaci.
Ciò che però ha fatto più scandalo è il Disturbo da Deficit dell'Attenzione e dell'Iperattività (ADHD) che
ha fatto impennare le vendite del farmaco denominato Ritalin.
Fortunatamente - dal mio punto di vista - nel fare Psicodiagnosi, l'approccio descrittivo-nosologico del DSM può essere
integrato con quello psicodinamico, che legge e interpreta il disagio/disturbo psichico in base alla presenza e intensità di
specifici conflitti, angosce, difese e così via, ovvero di categorie di comprensione della personalità mutuate principalmente
dalla teoria psicoanalitica (Gabbard, 2003).
Ovviamente la possibilità di "leggere" psicodinamicamente i disturbi mentali riportati nel DSM non è da tutti riconosciuta,
però, a mio avviso una sana collaborazione tra i due approcci non può che apportare maggiori informazioni al paziente ed elaborare
una prognosi più precisa.
Infatti, mentre l'approccio psicodinamico è meno "utile" nel costruire una diagnosi differenziale, fondamentale per una prognosi
successiva, l'approccio classificatorio del DSM è poco "utile" per approfondire il contesto personale, sociale e familiare del paziente,
nonché per comprendere la situazione attuale da un punto di vista anche esistenziale.
In poche parole, oltre a diagnosticare la depressione in termini generali di un dato individuo, bisogna anche comprendere
la depressione propria di quell'individuo.
Mentre nel primo approccio si tende ad assimilare l'individuo a una categoria diagnostica specifica, riducendo le differenze individuali, nel
secondo si privilegia l'unicità dell'individuo con particolare attenzione alla relazione "clinico-paziente" e a ciò che evoca.
Conclusioni
In definitiva, secondo me non è possibile dare una definizione precisa di disturbo mentale, poiché ogni persona, nel corso
della vita, può attraversare diverse fasi lungo un continuum che va dall'esistenza "normale" (condizione di benessere mentale e
di disagio mentale) alla sofferenza mentale (condizione di disturbo mentale e di disturbo mentale stabilizzato o cronico).
La condizione di benessere mentale è quella in cui esiste un buon livello di soddisfazione dei bisogni, insieme a una
soddisfacente qualità della vita.
Certamente non è uno stato "assoluto", che si raggiunge una volta per tutte, ma è l'obiettivo verso cui tende l'individuo
costantemente.
Il disagio mentale si ha quando si avverte uno stato di sofferenza, connesso a difficoltà di varia natura (negli affetti, nel
lavoro etc.) che comunque si presentano nella vita (quindi è una condizione universale e non minoritaria, che tutti possono attraversare).
Infatti, una quota di disagio è parte integrante di ogni esistenza.
Nella condizione di disturbo mentale, invece, il disagio raggiunge livelli di intensità molto elevati, non c'è soluzione
alla sofferenza finché questa si "clinicizza", ossia si esprime attraverso uno o più sintomi specifici.
Sebbene la condizione di disturbo mentale non rientri nella vita normale, tutti in situazioni particolari possiamo incorrere in tale
condizione, che può essere temporanea se curata tempestivamente.
L'ultima condizione, quella cronica, è quella in cui perdurano nel tempo non solo le alterazioni mentali e del comportamento,
ma anche le situazioni che l'hanno determinata.
Il riferimento a queste quattro condizioni permette, a mio avviso, di utilizzare un approccio "universale" alla sofferenza mentale, al pari
di quello proposto nell'ICF per la disabilità (qui assimilata alle condizioni di disagio mentale) senza escludere, però, nelle
situazioni più gravi, la presenza certa di un disturbo, in base a sintomi specifici riportati "esattamente" nel DSM (magari con un
cut-off meno "accorciato").
Sintomi che, comunque, devono essere legati al "vissuto" del paziente, alla sua storia, al contesto familiare, sociale, lavorativo che hanno
determinato in buona parte il disturbo, mettendo anche in evidenza conflitti, angosce, difese etc., nonché le esperienze interiori dello
Psicologo nella relazione col paziente. Inoltre, non meno importante, è la necessità di valutare il potenziale cambiamento dopo un
trattamento, secondo le capacità residue del paziente.
In tutto questo bisogna stare sempre attenti, secondo me, a non estremizzare certe filosofie: un dogmatismo eccessivo, che vede nel
paziente o lo stato sano o lo stato malato, è pericoloso quanto un relativismo esasperato che porta a dire che la malattia
non esiste perché è la società ad essere malata.
Sono due modi diversi di gettare una sentenza: o è colpa dell'individuo, della sua menomazione, della sua patologia, o è colpa
della società malata, spostando l'attenzione più sulla malattia, come concetto astratto, e talvolta ideologico, piuttosto che sulla
persona con la sua sofferenza nel qui ed ora.
È importante dosare bene gli ingredienti quando si fa una psicodiagnosi: la rimozione della sofferenza per mezzo di idee assolute
è molto più pericolosa della sofferenza stessa.
Per finire direi che, tutto sommato, utilizzando in modo adeguato il DSM (esempio non attenendoci strettamente al cut-off) e, soprattutto,
non considerandolo la Bibbia della Psichiatria, questo manuale può essere un utile strumento di lavoro.
Come relazionarci al DSM e usarlo dipende più da noi, dalle nostre capacità, nonché dalla conoscenza dei limiti e delle
facilitazioni del manuale, piuttosto che dallo stesso sistema di classificazione.
Per cui, ogni psicodiagnosi, anche la più "obiettiva" dipende in gran parte dalla nostra capacità di utilizzare in modo adeguato
gli strumenti che abbiamo a disposizione - senza tentare la fuga in classificazioni "ateoriche" o in posizioni "ideologiche" - e soprattutto
dalla nostra capacità di metterci in discussione e dalla voglia di lasciarci cambiare un po' da quello che i pazienti ci raccontano.
Richiamando Socrate direi quindi che l'essenza della Psicodiagnosi risiede nell'incontro in concreto delle reciproche umanità: quella
del clinico e quella del paziente.
Il clinico in quanto "uomo" ha la possibilità di comprendere e conoscere i propri pazienti, e le loro sofferenze di "uomini", solo stando
con loro...
Bibliografia
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- Matte Blanco I., "L'inconscio come insiemi infiniti", Biblioteca Einaudi, Torino, 1975
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www.ordinepsicologilazio.it/h_nello_scaffale/h_notiziario_psicologi/pagina52.html
- Gabbard G.O., "Psichiatria psicodinamica", (edizione basata sul DSM-IV), Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995
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Altre letture su HT
- Agosti T., "Il processo psicodiagnostico",
articolo pubblicato su HumanTrainer.com, Psico-Pratika nr. 88, 2012
- Guerra D., "Introduzione alla Psicodiagnosi",
articolo pubblicato su HumanTrainer.com, Psico-Pratika nr. 47, 2009
- Guerra D., "Gli Strumenti Psicodiagnostici",
articolo pubblicato su HumanTrainer.com, Psico-Pratika nr. 47, 2009
- Paterlini M., "L'esame obiettivo in Psicodiagnosi
e Psicoterapia", articolo pubblicato su HumanTrainer.com, Psico-Pratika nr. 24, 2006
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