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L'identità frammentata: il misterioso ruolo degli alter nel disturbo dissociativo. Parte 2 Gli alter in terapia, il transfert dissociativo, il dialogo tra gli alter, la sopravvivenza
L'articolo " L'identità frammentata: il misterioso ruolo degli alter nel disturbo dissociativo. Parte 2" parla di:
- Gli alter in terapia, gli errori più frequenti
Il transfert dissociativo e il dialogo tra gli alter Tra distacco e consapevolezza: la sopravvivenza
Articolo: 'L'identità frammentata: il misterioso ruolo degli alter nel disturbo dissociativo. Parte 2 Gli alter in terapia, il transfert dissociativo, il dialogo tra gli alter, la sopravvivenza'
INDICE: L'identità frammentata: il misterioso ruolo degli alter nel disturbo dissociativo. Parte 2
- Gli alter in terapia
- Il transfert dissociativo
- Promuovere il dialogo tra gli alter
- Tra distacco e consapevolezza: la sopravvivenza
- Bibliografia
- Altre letture su HT
Gli alter in terapia
Lo scopo della terapia del DDI è principalmente quello di aiutare il paziente a prendere coscienza della propria multiformità
identitaria, inducendolo a familiarizzare con i processi che ne rendono possibile la reciproca integrazione. Il tutto al fine di far cessare
l'approccio belligerante tra le parti dissociate e sostituirlo con una convivenza reciprocamente dialogica.
Il soggetto con DDI deve apprendere a pensare al Sé come a una struttura di aspetti diversi ma sintetizzabili. Distinti e
tuttavia unitari, in grado di sviluppare processi di meta cognizione, regolazione emotiva, riflessione mentalizzante, ma soprattutto di agency
e consapevolezza del Sé (Liotti, 1999).
Data la difficoltà di accesso interpretativo e relazionale imposto da DDI, è impensabile trattarne le componenti patologiche in
assenza di un intento collaborativo da parte del paziente.
Presupposto per questa basilare alliance terapeutica è la percezione, da parte del paziente, di un'atmosfera accogliente e non giudicante,
in cui l'Io supportivo del clinico lo aiuti a contenere il deflagrante vissuto traumatico in una prospettiva realistica, al fine di non
incrementare stati di disagio o colpevolizzazione, che potrebbero rinforzare le strategie difensive dissocianti.
Naturalmente il tutto dovrà avvenire con estrema gradualità, nel rispetto di un timing di volta in volta rinegoziato in base alle
esigenze del paziente, senza escludere la possibile insorgenza di tempi critici e difficoltà, ma soprattutto cercando di evitare quelli
che, nell'approccio con gli alter, vengono considerati gli errori più frequenti e invalidanti il prosieguo della terapia (D'ambrosio,
Costanzo, 2014):
- focalizzarsi su una sola identità, magari perché più aperta e disponibile, trascurando le altre;
- suggerire al paziente di ignorare le identità più sgradite o meno frequentemente percepite, fingendo che non esistano;
- invitare il paziente a crearsi un'identità protettiva;
- chiedere di potenziare o rendere più autonoma un'identità, perché considerata più assertiva rispetto
alle altre;
- forzare gli alter a uscire dalla loro zona d'ombra, ove manifestino una certa ritrosia nel farlo. Si vedrà come questo fenomeno
risulti, quanto meno nelle prime fasi del setting, la forma di resistenza più frequentemente attuata dal paziente.
Il transfert dissociativo
Il transfert di un paziente affetto da disturbo dissociativo è prima di tutto caratterizzato da una profonda diffidenza relazionale:
è piuttosto frequente che, contenuti traumatici maturati con l'oggetto genitoriale, lo portino a vedere un potenziale abusatore in tutti
i soggetti con i quali instaura un rapporto di dipendenza, tra i quali viene annoverato anche il terapeuta (McWilliams, 1994). Liotti (2011)
parla opportunamente di "fobia dell'attaccamento" in riferimento alla paura di affidarsi a una persona che si mostri disposta a offrire
aiuto per superare difficoltà e disagi, spingendo ad attivare un sistema motivazionale di attaccamento a lungo invalidato, e a colmare
un neglect che ha spinto a consolidare ineluttabili certezze abbandoniche.
Per quanto la tentazione di considerare psicotici tali transfert sia forte, sembra più prudente definirli traumatici proprio
perché attinti dal retaggio mnestico, percettivo ed emotivo conseguente al trauma riprodotto coattivamente nel setting (McWilliams, 1994;
Kluft e Fine, 1993).
L'effetto dissociativo può riprodursi anche nella dimensione transferale, comportando la compresenza tra un transfert
collaborativo da parte della personalità principale e un atteggiamento molto più resistente da parte delle personalità
alternative, che possono osteggiare, spesso con atteggiamenti altamente oppositivi, la buona prosecuzione della terapia. Di fatto non sono
poche le personalità che, percepito il rischio di essere individuate, reagiscono amplificando la connotazione dissociativa in una chiara
resistenza terapeutica (McWilliams, 1994; Lingiardi e Madeddu, 2002).
Molte possono rifiutarsi letteralmente di apparire, talvolta attraverso un'opposizione esplicita, altre volte mediante un rifiuto sottile e
larvato, e tuttavia egualmente finalizzato a impedire un definitivo svelamento.
Di fronte a ciò il terapeuta dovrà aggirare funzionalmente la resistenza reagendo al rifiuto con cautela ed empatia, accettando
la non collaborazione degli alter e accontentandosi di parlare con quelli disposti a palesarsi, senza dimenticare la silenziosa presenza degli
altri. In alternativa potrà chiedere al paziente di dar vita a un alter interlocutorio - una sorta di mediatore comunicativo -
incaricato di relazionarsi attivamente con le personalità rifiutanti. Il tutto cercando di rispettare un timing realistico delle tecniche
e degli obiettivi (D'Ambrosio, Costanzo, 2014).
Esiste l'ulteriore rischio che il paziente rifletta nel terapeuta i vissuti di discontinuità che caratterizzano il proprio
nucleo identitario, proiettando nello stesso un alternarsi incoercibile tra i ruoli di salvatore, vittima, persecutore. Il terapeuta dovrà
limitarsi a gestire questi prodotti transferali, resistendo alla tentazione di agirli in modalità collusiva, tollerando l'impasse e
soprattutto facendo appello alle parti sane del paziente per costruire quel livello di fiducia collaborativa che consentirà l'allentamento
delle strutture difensive.
Promuovere il dialogo tra gli alter
Promuovere un dialogo interno tra le varie parti del Sé comporta soprattutto il consolidamento delle competenze metacognitive e
autocritiche danneggiate dal trauma: la dimensione esistenziale del paziente assumerà così una forma meno frammentaria, aprendosi
gradualmente a considerare la possibilità che i diversi aggregati di intenzioni, volizioni ed esperienze presenti all'interno del Sé
possono essere visti come stati transitori di una sola mente, e non come dislivelli identitari inconciliabili che, per sopravvivere, necessitano
di dissociarsi l'uno dall'altro (Liotti e Farina, 2011).
A questo si accompagna l'esigenza di rievocare nel setting il contenuto traumatico di cui ogni alter è portatore - in termini
emotivi, cognitivi ed esperienziali - restituendoli alla coscienza in una veste metabolizzata e consapevole perché letteralmente
"risignificata".
Andando per gradi, il dialogo con gli aspetti dissociativi può iniziare con un atteggiamento di normalizzazione circa le rispettive
diversità del Sé, di cui verranno messi in evidenza gli aspetti potenzianti e soprattutto non distruttivi. Il terapeuta dovrà
esortare il paziente a non percepire la propria multidimensionalità con stigma colpevolizzante, e ancor meno con uno stato di vergogna,
chiarendo come tali vissuti non siano imputabili a una sua responsabilità, ma siano dovuti all'evento traumatico che ha causato la
dissociazione.
In secondo luogo sarà necessario promuovere un dialogo aperto e collaborativo tra i vari aspetti dissociativi, precisando
che la compresenza armonica tra gli stessi non comporterà nessuna amputazione della personalità o del vissuto, ma soltanto una
significazione sintetica tra i vari aspetti che lo compongono. È utile spiegare alle singole personalità che nessuna di loro, dopo
l'integrazione, andrà perduta: semplicemente esse impareranno un nuovo modo di relazionarsi, di dialogare e di manifestarsi al Sé,
in una prospettiva non di perdita né di eliminazione, ma semplicemente di controllo cosciente, riflessione e cognizione (Liotti, Farina,
2011).
Soprattutto nel momento in cui la personalità principale è messa in ombra dagli alter, il trauma può venir letteralmente
rivissuto all'interno del setting, mediante processi di presentificazione compulsiva che spingono a reiterare disfunzionalmente contenuti emotivi
e comportamentali relativi all'evento traumatico (Mc Williams, 1994; Gabbard, 2015). In questo contesto gli alter non dovranno relazionarsi con
strategie ostativo-competitive, bensì attraverso un contatto reciprocante che li vedrà sostenersi a vicenda nel doloroso processo
di rielaborazione (Van der Kolk, 2014; Kluft e Fine, 1993), nel quale il terapeuta svolgerà un ruolo eminentemente contenitivo, laddove
un impatto troppo diretto con i contenuti drammatici a lungo scotomizzati potrebbe mostrarsi ancor più traumatizzante.
Si potrà creare a tal proposito una sorta di "memoria protettiva", una zona di decompressione nella quale rifugiarsi
quando l'impatto emotivo con un ricordo si fa talmente intenso da chiedere una pausa riflessiva, un'interruzione, una sorta di recupero salvifico
con cui riacquistare le forze necessarie ad ulteriori esplorazioni mnestiche (D'Ambrosio, Costanzo, 2014).
Egualmente si potrà far ricorso a strategie di grounding, finalizzate a fornire una serie di appigli attinti dall'ambiente
esterno o dal proprio corpo, al fine di potenziare la percezione del Sé nella realtà contrastando l'escalation del numbing: ad
esempio si può chiedere al paziente di spostare l'attenzione sulle proprie sensazioni cinestesiche, magari descrivendo la posizione del
suo corpo in quel momento; oppure si può esortarlo ad ascoltare la sua musica preferita, ad accarezzare un animale domestico, a toccare
oggetti familiari e securizzanti o a svolgere qualsiasi attività lo faccia sentire protetto e contenuto, in un contesto vitale nel quale
apprenderà a muoversi senza l'esigenza di difese dissociative.
Utile anche appellarsi a un processo immaginativo mediante il coinvolgimento di canali sensoriali che servano a rendere più
realistica la presenza degli alter. Dunque si può chiedere al paziente di immaginare che le sue personalità si trovino in fila
su di un palcoscenico, riflesse all'interno di uno specchio o sedute attorno a un tavolo l'una accanto all'altra, pronte a collaborare con
lui in un dialogo alla pari prima di accettare l'esigenza sintetica del Sé, inserirsi gradatamente l'una dentro l'altra e divenire una
soltanto (Fraser, 1991).
La fusione del Sé traumatico in un'unica dimensione potrà così assumere una parvenza visiva prima ancora che
psichica, nel rispetto di una gradualità che stemperi l'impatto immediato con una realtà patologica a lungo negata (D'Ambrosio,
Costanzo, 2016; D'Ambrosio, Vacca, Golia, 2005).
Tra distacco e consapevolezza: la sopravvivenza
L'autoriflessività è consentita a ciò che viene giudicato necessario all'adattamento psichico: tutto ciò
che potrebbe metterne in pericolo l'equilibrio e l'unità viene lasciato a galleggiare nella mente - sottoforma di altro (alter) -
simile a isole dissociate, non elaborabili né cognitivamente né affettivamente (Farina, Liotti, 2011; Herman, 1992).
Si tratta di un meccanismo difensivo dettato dall'istinto di sopravvivenza, paradossalmente potenziato nel trauma, per quanto in maniera
disfunzionale. Ma al di sotto delle ferite provocate dall'evento traumatico si nasconde la dimensione di un Sé fiducioso, curioso,
creativo, e soprattutto legato a motivazioni reattive di sopravvivenza e ripristino, che val la pena destare in tutte le sue potenzialità.
È infondo questo l'obiettivo finale del setting terapeutico per il DDI: l'integrazione di tutte le personalità, e quindi
di tutti i contenuti traumatici dissociati, all'interno di un sé coeso e unitario, nel quale consapevolezze identitarie e competenze
egoiche - riflessive, regolative, mentalizzanti - risultino funzionalmente ripristinate.
Bibliografia
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