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Il mito dell'ermafrodita: metodi e tecniche
scritto da:
Dott.ssa Patrizia Napoleone
psicologa e psicoterapeuta - pisa
- HT page Napoleone Patrizia
Articolo tratto da psico-pratika - Numero 2 Anno 2002
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il mito dell'ermafrodita - parte 2
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il mito dell'ermafrodita
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Integrazione dell'individuo (uomo e donna) nella relazione di coppia - miti e leggende
Tecniche di induzione del sogno lucido
- I Parte: Analisi;
- Quadro 1. Lei è depressa, a lui fa comodo: i vantaggi secondari;
- Quadro 2. Non vado d'accordo con mio marito. Torno da mia madre!: un modo per non crescere;
- Quadro 3. Davanti a me ho ancora mio padre - sei troppo diverso da lui, mio padre sì che era un uomo: gli stereotipi familiari;
- Quadro 4. Io sono ok. Tu non sei ok.: il ruolo del genitore e del bambino;
- Quadro 5. Ma perché non mi capisci?: è solo una questione di linguaggio?;
- Quadro 6. A che gioco giochiamo? Vittima e carnefice, Tribunale, Crocerossina, Occupatissimo, Burrasca, Silenzio, Guarda che mi hai fatto fare;
- Quadro 7. Noi non litighiamo mai...: c'è qualcosa sotto.
Mi risveglio molto in fretta da questo oblio.
Metto frettolosamente a posto una memoria, uno smarrimento.
Una parola (classica) ha origine dal corpo, che esprime l'emozione d'assenza: "sospirare":
"sospirare per la presenza corporea":
le due metà dell'androgino sospirano l'una per l'altra, come se ogni respiro, incompleto, volesse confondersi con l'altro:
immagine dell'abbraccio, in quanto esso fonde le due immagini in una sola:
nell'assenza amorosa io sono, tristemente, un'"immagine staccata", che si secca, ingiallisce, s'accartoccia.
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso
II Parte: Metodi e tecniche
Una buona analisi rappresenta il primo movimento che stimola, in coloro che vi partecipano, dinamiche interne e di relazione che guidano al
cambiamento.
I soggetti coinvolti, attraverso l'analisi, possono attivare un processo di riconoscimento che va dall'identificazione a specchio, che muove
emozioni, alla disidentificazione attraverso la quale essi possono osservarsi con il giusto distacco.
Ma questo non è sufficiente per ottenere un cambiamento reale nella vita quotidiana, senza più girare a vuoto intorno al disagio o addirittura
al dolore.
È importante trasformare le emozioni lungo un percorso che va da una fase di analisi e approfondimento verso una fase in cui si creano le
soluzioni.
Non basta infatti la comprensione e condivisione del "problema".
Se infatti restiamo nel "problema", aumenta il peso emotivo.
È essenziale perciò uscirne con una sensazione di sollievo, perché il soggetto possa arrivare a chiedersi "che cosa farò per cambiare la
mia situazione?".
Premetto che non esistono formule vincenti e che un supporto psicologico ben mirato è quello che crea le condizioni perché ciascuno, in maniera
singolare ed esclusiva, attivi le sue personali energie per un cambiamento a lui consono.
Non c'è una soluzione, ma tante soluzioni quanti sono i soggetti che di soluzioni hanno bisogno.
L'ascolto profondo ed empatico è dunque il punto di partenza perché il soggetto possa esplorare le sue tensioni e approfondire le emozioni e
perché lo psicologo possa individuare i metodi e gli strumenti più consoni allo scioglimento delle problematiche del soggetto, fornito dei
quali, il soggetto stesso trovi le sue "soluzioni".
Vado nel concreto.
Le argomentazioni che ho proposto nell'analisi da me condotta nella prima parte dell'articolo sono le medesime con le quali ho intrattenuto
durante un seminario un gruppo di persone singles o divorziate o comunque "ferite" nelle relazioni con l'altro sesso.
Ebbene, la loro attenzione è stata particolarmente focalizzata sul tema dell'integrazione del "maschile" e del "femminile" dentro noi stessi:
un concetto per alcuni nuovo che ha incuriosito e anche un poco spiazzato gli interlocutori che si chiedevano - ebbene, come faccio però a fare
questa integrazione?-.
È chiaro che a questo punto inducevo a riflettere quanto tale integrazione sia il risultato di un processo lento e sotterraneo, ma nel contempo
sentivo che era compito mio offrire qualche strumento concreto.
Ho suggerito allora un esercizio in cui, attraverso tre movimenti viene agito in concreto l'atto del riconoscimento, dell'accettazione
e dell'integrazione della propria parte controsessuale:
1 riconoscimento: disegnare di getto ( a figura intera ) se stessi ma dell'altro sesso
2 accettazione: vedere mentalmente l'immagine del disegno come se vivesse la propria vita quotidiana, e notare come certe cose cambiano.
Se le emozioni prodotte sono positive passare al punto 3, altrimenti cambiare qualcosa nell'immagine mentale del disegno
3 integrazione: costruirsi un'immagine mentale di sè (come si è adesso) e fonderla con il risultato del punto 2.
Una personale integrazione è certamente una garanzia, ma, ammesso che si sia lavorato su questa, come concretamente gestire il conflitto
nell'incontro/scontro con il partner? Come arrivare a una valutazione senza pregiudizi delle autentiche parti del partner reale?
Anche in questo caso ho offerto loro alcuni strumenti all'interno dei quali potessero scegliere quelli che ritenevano più consoni al loro vissuto
personale.
La rielaborazione del conflitto può avvenire nel modo seguente:
1 approfondimento emozionale stando col pensiero e in raccoglimento nel conflitto (primo giorno)
2 scrittura spontanea e libera da qualsiasi vincolo di tutto quello che viene in mente sul conflitto (secondo giorno)
3 rilettura di quanto è stato scritto e sottolineatura di tutte quelle cose che si fa fatica ad accettare, rendendosi conto che quello che si
proietta è una parte di noi, non del resto del mondo.
La valutazione delle autentiche parti reali del partner può avvenire soltanto se ci disponiamo per un ascolto libero e aperto, senza
barriere difensive, che sono la critica, l'interpretazione, il consiglio, la drammatizzazione, la svalutazione.
Uno strumento che ritengo essenziale nella fase costruttiva è il recupero dell'esperienza concreta.
Come dice Jerome Liss "per capire noi stessi talvolta abbiamo bisogno di approfondire l'esperienza, servendoci di situazioni concrete e di ricordi
precisi. In caso contrario combattiamo contro i mulini a vento".
Perciò ho invitato i partecipanti al seminario a "stare" nel loro vissuto, finchè la mente e il cuore non uscissero dal vago fluttuare di
un'ansia e di un turbamento senza nome e senza storia e finchè non approdassero invece a racconti concreti del loro vissuto di coppia.
È solo dentro una situazione concreta che possiamo attuare dei cambiamenti.
Il risultato di questa fase di lavoro è stato da me stilizzato in sette quadri di altrettante situazioni emerse sulle quali, forse, con qualche
correzione, quella storia già scritta e che si è fermata a un punto "morto" o che si sta scrivendo in maniera sprecisa e disordinata, può
diventare una bella storia e se la dovremo proprio cestinare, niente paura, talvolta crescere, per la coppia, significa anche "lasciare andare"
senza attaccamenti e saremo più preparati per la prossima, o per la prossima ancora: sembra che l'umanità non si sia stancata di inventare
storie fra uomini e donne, non ci stancheremo neppure noi, con la speranza di scriverla sempre meglio.
Quadro 1: Lei è depressa, a lui fa comodo: i vantaggi secondari
Certi modelli di comportamento nella coppia diventano ricorrenti e ripetitivi per mantenere artificiosamente un equilibrio omeostatico.
Se all'interno della coppia la temperatura è troppo alta tanto da fare temere che spacchi il termometro, un membro della coppia assorbe su di
sè il surplus di temperatura, agendola attraverso il sintomo e riequilibra il termometro.
Il sintomo di un membro pone la coppia su un nuovo livello di organizzazione, che permette la sopravvivenza della coppia e rimuove la possibilità
di conflitto attraverso l'attivazione di meccanismi di senso di colpa.
Dal momento che c'è sempre un rapporto tra il sintomo e la relazione, nel caso illustrato ci si può chiedere se è il disagio di coppia ad
avere generato la depressione della donna, la quale in tale modo scarica la sua sofferenza sul sintomo, che agisce da distraente rispetto alla
possibilità di affrontare il problema di coppia, che da un senso e una dignità al suo dolore e una giustificazione a tutto ciò che sta
succedendo - non c'è nessun problema: è solo colpa della malattia-.
I vantaggi secondari che la donna trae dall'agire il sintomo depressivo sono già parecchi; aggiungiamoci quello di scaricarne la responsabilità
sul marito, che può essere additato come la causa dichiarata della sua condizione e, attraverso il senso di colpa ingenerato in lui, quello di
garantirsi, in una sorta di regressione, un accudimento e una presenza-assenza che la rassicuri.
D'altro canto il marito gioca anche lui le carte dei suoi vantaggi secondari: la moglie è malata, lui non può farci niente, non è certo colpa
sua, anche la madre di sua moglie era depressa, a lui tocca scontare questa pena e con ciò si perdona ogni trasgressione e ogni "scappatella"
che voglia concedersi: volta le spalle e se ne va a respirare aria diversa, fino al giorno dopo, quando, come un copione, si ripropone questo
gioco della vittima e del carnefice: ma chi è la vittima? Chi è il carnefice? I ruoli si scambiano reciprocamente: vittima e carnefice giocano
a ping pong.
La soluzione?
Se ciascuno dei due si ferma a chiedersi che cosa vuole da se stesso, dal partner e dalla vita, fuori da giochi e da trucchi di copertura, si
riappropria almeno della sua volontà.
Tante volte però i giochi di rappresentazione di modelli sono talmente radicati che la coppia dovrebbe onestamente ammettere di avere bisogno
di aiuto e accettarlo senza vergogna e senza paura della sconfitta, ma come momento di crescita.
In questo caso la vera sconfitta può essere una sconfitta negata.
Quadro 2: Non vado d'accordo con mio marito. Torno da mia madre!: un modo per non crescere
In certi casi i problemi che nascono nelle relazioni intime sono l'espressione del disagio e del rifiuto di crescere.
Il "bambino" interiore che ha difficoltà ad assumersi la responsabilità dell'adulto che è cresciuto in lui, continua a tirare il cordone
ombelicale non reciso dalla parte dell'infanzia, dove il genitore ha il dovere di pensare a lui e di garantirgli una duratura e cronicizzata
irresponsabilità.
Per l'adulto bambino che vive un'esperienza di coppia, l'unico modo per tornare "da mamma" senza assumersi la responsabilità della rottura
della relazione è quello di creare artificiosamente situazioni di litigio tali da provocare oggettivamente la rottura.
La persona che gioca questo ruolo non può che comportarsi così, poichè, in quanto psicologicamente bambino, non reggerebbe il peso della
colpa, allora deve continuare a dire per l'intera vita "è tutta colpa sua. Gli uomini sono tutti mascalzoni. Ha ragione mamma!", oppure, se
a correre da mamma è l'uomo" le donne sono tutte... eccetto la mia mamma, che poi, è l'unica che sa cucinare".
C'è una sola possibilità che la coppia, lasciando così le cose, trovi il suo legante; è quella in cui uno dei due giochi il ruolo di "genitore"
dell'altro. Se i vantaggi secondari di questa situazione sono sufficienti ai membri della coppia, all'uno di non prendersi nessuna responsabilità,
all'altro di esercitare un potere incondizionato, buon pro per loro, ma si ricordi, il "genitore", che prima o poi, ogni "figlio" prende la sua
strada e se ne va, magari ringraziando.
Non resta che una alternativa: all'uno di accettare di crescere, all'altro di fare soltanto la parte che gli spetta. Talvolta non è facile farlo
da soli: bisogna avere l'intelligenza di farsi aiutare.
Quadro 3. Davanti a me ho ancora mio padre - sei troppo diverso da lui, mio padre sì che era un uomo: gli stereotipi familiari
Questo è il caso di una donna - ma la situazione potrebbe essere ribaltata - che si è innamorata di un uomo sulla base della proiezione della
figura paterna idealizzata, proprio perché non sufficientemente elaborata dentro di sè; con gli "abiti" del padre questa donna ha rivestito anche
il suo animus, detto in termini junghiani, cioè quel maschile inconscio che avrebbe dovuto integrarsi armoniosamente col suo essere donna - forza,
responsabilità, razionalità, assertività - sono requisiti che la donna non ha fatto propri, non ha integrato nel suo femminile, ma ha lasciato
stagnare nella figura paterna interiorizzata senza appropriarsene e che ha prestato al suo uomo nel momento della "luna di miele", cioè della
proiezione seduttiva, attraverso la quale si è concessa, superando con questo trucco i confini del superego censore, il permesso di innamorarsi
di suo padre e di avere con lui rapporti sessuali; ma al momento del naturale ritiro della proiezione, la delusione è stata così grande che, per
ristabilire un certo equilibrio con se stessa, deve scaricarla sul suo uomo reale, non facendolo sentire all'altezza del suo ruolo di maschio.
E chi potrebbe gareggiare con un padre idealizzato e tirannico che non permette alla figlia di innamorarsi di un altro?
Svalutare il proprio uomo in questo caso è una maniera per non tradire il padre, al prezzo dell'infelicità propria e del partner, che, se accetta
il ruolo di uomo "inadeguato", cronicizza questa situazione, rendendola senza via di uscita.
In questo caso, quello della coppia che porta addosso il fantasma del genitore, ha una sola possibilità: proporre se stesso e non sforzarsi di
somigliare al fantasma.
Può salvare anche il partner; se questo non avviene, avrà almeno salvato se stesso.
Quadro 4. Io sono ok. Tu non sei ok.: il ruolo del genitore e del bambino
C'è un libro di Harris "Io sono OK. Tu non sei OK." che illustra l'analisi transazionale di Berne, dove vengono classificati quattro possibili
atteggiamenti in relazione a se stessi e agli altri. Questi atteggiamenti prenderebbero il via da comportamenti difensivi della prima infanzia,
quando tutti i bambini si trovano, rispetto agli adulti, in una posizione di svantaggio.
Il persistere di tale "imprinting" in età adulta all'interno della coppia pone uno dei partner nell'affannosa ricerca delle carezze e della stima
dell'altro, che vive come ok.
Egli è condannato ad arrampicarsi per tutta la vita verso il raggiungimento dell'altro, senza che ciò gli procuri il senso durevole di valere
qualcosa, perché il modello di se stesso, in termini relazionali, è comunque non ok.
Il bambino può difendersi da questa frustrazione in due maniere, o catalogando come non ok. anche l'adulto e ristabilendo una strana condizione
di parità verso il basso o fantasticando una condizione di onnipotenza.
L'uno e l'altro modello, se persistono nella coppia adulta, creano asimmetrie e squilibri; il partner che si svaluta, trascinando l'altro nella
medesima svalutazione - non contiamo niente nessuno dei due, siamo degni l'uno dell'altra - rifiuta di conoscere il partner per quello che è e
non può ricevere aiuto da lui, poichè non lo stima capace di farlo.
Di contro chi, continuando a mimare inconsciamente questo modello di superiorità difensiva, per non accettare le proprie debolezze, si sente
adeguato e superiore ad un partner che vive come inadeguato e inferiore, è condannato alla solitudine anche in coppia.
Senza mai guardarsi dentro, proietta sul partner la sua parte negativa e su di lui la punisce, non accettandola come propria.
Peraltro, se da una parte genera una vittima rassegnata che getta la spugna e si deresponsabilizza per commettere meno errori possibili agli
occhi del partner ok., quest'ultimo si assume il ruolo sì del carnefice, ma anche del giustiziere eroe, l'unico che nelle situazioni di coppia
si sovraespone e si fa carico di tutto, perché l'altro non ne sarebbe capace.
Un ruolo vile e meschino il primo e certamente logorante e faticoso il secondo.
In un solo modo le modalità infantili in funzione difensiva possono essere superate nella coppia: rendendosi consapevoli che non vale la pena
vivere in coppia per difendersi o per offendere o per affogare insieme, ma che, eventualmente, insieme bisogna remare.
Questo è l'atteggiamento della simmetria: io sono ok. Tu sei ok.
Quadro 5. Ma perché non mi capisci?: è solo una questione di linguaggio?
La relazione vive nella comunicazione.
L'assenza di una autentica comunicazione provoca il logoramento della coppia, che continua a vivere nell' agito quotidiano, cioè attraverso le
azioni che coinvolgono i partners, ma senza che ci sia un confronto, un feed-back su ciò che fanno.
Specialmente nell'uomo c'è la paura delle parole secondo il principio - meno parlo, meno fraintendimenti si creano -. L'uomo si affida di più
alle azioni, è francamente meno educato al linguaggio dei sentimenti e talvolta ha pudore a esprimerli, ritenendo di mettere allo scoperto
qualcosa che può essere interpretato come debolezza.
Anche un conferenziere o un chiacchierone al bar possono diventare muti e difesi da un giornale o da uno schermo televisivo, quando rientrano a
casa.
Questi stili comunicativi sono così ricorrenti da essersi addirittura stereotipati in chiave parodistica.
Pensiamo alla striscia del fumetto americano di Blondie e Dagoberto dove lei si lamenta: "La mattina tutto ciò che vedi è il giornale! Scommetto
che non ti sei neppure accorto che ci sono!" Lui allora la rassicura "Naturalmente che ci sei, mia splendida moglie!" e intanto, sempre parlando
da dietro il giornale, da dei colpetti affettuosi alla zampa del cane, che la moglie aveva messo al suo posto prima di uscire dalla stanza :-))
Tenendo conto delle diverse tradizioni culturali all'interno delle quali l'uomo e la donna, anche se appartengono a un medesimo contesto sociale,
sono stati educati, prendiamo atto che tale differenza può derivare da linguaggi diversi e il ponte da gettare non è allora quello della
provocazione - il parlare troppo della donna e il tacere dell'uomo - ma il riconoscimento della diversità.
C'è però da porsi una domanda: è solo una questione di linguaggio? O è una forma di ritiro per evitare l'intimità?
Nell'uno e nell'altro caso è una ristrutturazione della comunicazione di coppia e una rieducazione all'ascolto che può riaprire il dialogo.
Quadro 6. A che gioco giochiamo? Vittima e carnefice, Tribunale, Crocerossina, Occupatissimo, Burrasca, Silenzio, Guarda che mi hai
fatto fare
"A che gioco giochiamo" è il titolo di un libro di Berne, che definisce il "gioco" in tutte le relazioni come una serie progressiva di
transazioni rivolte a un risultato ben definito, con mosse insidiose, la cui conclusione ha un elemento drammatico e non semplicemente emozionante.
L'elemento drammatico è la paura dell'intimità, che spinge a nascondersi in ruoli ben definiti, e al naufragio della relazione attraverso
le tecniche dell'evitamento, del rituale e del ritiro.
Nei nostri esempi precedenti abbiamo già visto come certi ruoli che condizionano i rapporti di coppia, siano talvolta provenienti da immagini
genitoriali o da esperienze infantili.
Così è anche il gioco della "crocerossina" - io ti salverò! Sembra dire al partner - ma la cura non finisce mai, altrimenti cessa la dipendenza
sulla quale si regge la coppia.
L'"occupatisimo" è il gioco che mette in atto il ritiro e l'evitamento.
Alcuni si servono della propria attività per evitare l'intimità con il partner e trovare una giustificazione accettabile per se stesso e per
l'altro.
Ottengono con questo di non mettersi mai discussione.
"Burrasca" e "silenzio" sono due forme opposte per ottenere lo stesso risultato: non parlare.
Non rispondere a una domanda o rispondere con un urlaccio sono la stessa cosa.
"Guarda che mi hai fatto fare" è una maniera per proteggersi dalla ferita di avere sbagliato.
Singolare e altamente irritante anche per chi vi assiste è il gioco del "perché non... sì ma", dove uno dei due respinge ogni proposta di
aiuto dell'altro.
Il trucco consiste nel fatto che lo scopo non è il raggiungimento dell'obiettivo dichiarato - ricevere aiuto - ma tutt'altro, è quello di
dimostrare che il suo problema è irrisolvibile, svalutando l'aiuto del partner e prendendosi il vantaggio secondario di crogiolarsi in una
passività vittimistica del "non c'è nulla da fare".
Un dialogo tra partners è andato così:
Anna - non sto bene in questo periodo. Da quando non ho più il lavoro e sto sempre in casa, mi sento sola, sono diventata anche brutta, non vedi come sono ingrassata? Firrò per non piacerti più -
Bruno - questo non è vero, e credo di dimostrartelo, ma se hai questa sensazione, perché non ti curi di più, ora che hai più tempo? Potresti andare in palestra e lì incontreresti anche altre persone e non ti sentiresti più sola
Anna - sì, ma la palestra costa troppo e io non guadagno più -
Bruno - se pensi a quello, potresti fare un po' di allenamento da te, andare a correre, per esempio...-
Anna - ma ho già provato e con tutte le cose che ho da fare, non riesco mai a trovare il tempo. Prima di andare a correre bisogna mettersi in tuta, e poi bisogna farsi la doccia-
Bruno - Va bene, ti capisco, eppure quando lavoravi, riuscivi a fare un po' di tutto. Perché non riprendi a lavorare?-
Anna - Sì, ma se non ho il tempo per dedicarmi a me stessa, come faccio a andare a lavorare? Non ci sono più i nonni che ci guardavano i bambini-
Bruno - È vero, ma posso sistemare i miei turni in maniera diversa e darti un poco il cambio, in fondo il tuo stipendio ci faceva comodo-
Anna - Ah, è così? Mica per aiutarmi lo dici, ma per i soldi. Poveri bambini! Arrivi sempre tardi e stanco, come faresti a occupartene?-
Bruno - Forse è vero, non la voglio prendere come un rimprovero, ma un' attenzione nei miei riguardi. Perché non li mandiamo uno al nido e l'altro all'asilo, secondo me li farebbe bene e farebbe bene anche a te-
Anna - Ma se all'asilo non fanno altro che ammalarsi! Sarebbero più i giorni che manco dal lavoro di quelli in cui ci vado-
Bruno - In fondo sono scelte tue. Se ritieni che sia meglio così per i bambini, organizzati -
Anna - Fai bene te a parlare, perché trovi tutto pronto e scodellato!
A questo punto Bruno ha troncato la conversazione e Anna ha ottenuto il suo scopo non manifesto: quello di sentirsi perdente e di potersi
lamentare dell'incapacità di Bruno ad aiutarla.
Quadro 7. Noi non litighiamo mai...: c'è qualcosa sotto
L'evitamento e il diniego può essere giocato in due e quindi rinforzarsi.
Un uomo e una donna, durante il seminario, si tenevano sempre per la mano, osservavano gli altri con un vago sorriso e non intervenivano mai.
Stimolati a partecipare dichiaravano che loro non litigavano mai. Col tempo si scoprirono anche a se stessi e venne alla luce che avevano due
visioni completamente diverse sulla vita e sulle relazioni. Fu manifesto che temevano il conflitto e dunque evitavano ogni occasione di litigio,
perché avevano paura di una eventuale separazione, specialmente per il giudizio degli altri, perciò offrivano agli altri la falsa immagine della
coppia perfetta.
In casi del genere, guidare verso il confronto anche conflittuale significa guidare verso l'accettazione di ciò che è quindi anche a
riconoscersi, al di la' degli infingimenti, e ad assumersi la responsabilità del cambiamento.
Ipotizziamo ora un uomo e una donna che abbiano superato le prove per una loro identificazione personale, che abbiano imparato la gestione
dei conflitti di coppia, mettiamoli insieme, uno davanti all'altra: si amano e il rapporto di coppia funziona; ma quanto l'abitudine, la fretta,
la distrazione, il dare per scontato quello che si è raggiunto, possono rovinare una relazione tra uomo e donna; non sono vizi capitali, eppure
possono provocare, scivolando su se stessi, valanghe che travolgono e inghiottono, dal pericolo delle quali nessuno è esente.
Una relazione è dinamica e in continuo sviluppo; non basta costatarne la buona riuscita, ma è importante coltivarne costantemente la crescita,
perché sia al passo con i cambiamenti, rinnovandosi e attuando le sue potenzialità.
Quanto tempo e spazio quell'uomo e quella donna dedicano alla reciproca attenzione?
Quanta memoria hanno uno dell'altra?
Quanto si dedicano al linguaggio della tenerezza e dell'ammirazione rispetto invece a quello della critica e del disprezzo?
E infine, una volta compreso il rispetto per la diversità l'uno dell'altra, quanta capacità c'è nella relazione di abbassare le difese,
senza pregiudizi rispetto all'altro, di lasciarsi influenzare, accettando come arricchimento anche il cambiamento di se stessi che ne può
derivare?
Queste sono domande che lasciamo aperte perché ognuno trovi in sè, non dico la risposta, ma lo spazio di riflessione.
Infine, tanto perché nessuno di noi da queste parolette esca con un senso di frustrazione, voglio dire che la coppia perfetta non esiste, quella
attraverso la quale la "ferita" si rimargina e si ricostituisce l'eramafrodita, perché se ciò avvenisse, se nella coppia si cicatrizzasse la
ferita, questa, continuando a usare la suggestiva immagine di Carotenuto, non potrebbe più essere feritoia, varco attraverso il quale guardare
e coltivare l'"oltre": la coppia, rinunciando per paura all'utopia della congiunzione dell'Uno col Tutto, si sarebbe chiusa in linea difensiva
alla ricerca e alla conoscenza.
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il mito dell'ermafrodita
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