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Questionari psicologici: meglio tradizionali o intervistatori computerizzati?

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Questionari psicologici: meglio tradizionali o intervistatori computerizzati?
Usa. Uno studio mostra la preferenza dei soldati per il colloquio con un intervistatore computerizzato

L'articolo "Questionari psicologici: meglio tradizionali o intervistatori computerizzati?" parla di:

  • Settore militare e salute mentale
  • Il questionario di valutazione PDHA
  • Utilizzo di intervistatori umanoidi computerizzati
Psico-Pratika:
Numero 142 Anno 2017

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A cura di: Redazione - Pubblicato il 03 Dicembre 2017

Questionari psicologici: meglio tradizionali o intervistatori computerizzati?
Usa. Uno studio mostra la preferenza dei soldati per il colloquio con un intervistatore computerizzato

California. Per facilitare la segnalazione dei sintomi collegati a disturbi mentali e portare così chi ne soffre a cercare aiuto e accedere ai giusti trattamenti, potrebbe essere efficace ricorrere a "intervistatori umanoidi computerizzati", ovvero a figure computerizzate che rappresentano un essere umano assumendone aspetto, gesti, espressioni, toni, ecc.
È quanto emerge da uno studio condotto dalla Dott.ssa Gale M. Lucas e i ricercatori dell'Institute for Creative Technologies della University of Southern California, pubblicato il 12 Ottobre 2017 sulla rivista Frontiers in Robotics and AI.

Premesse.
Lo studio afferma che le persone sono spesso poco propense a rivelare di sé quelle informazioni che potrebbero in qualche modo portarle ad essere discriminate, soprattutto quando riguardano la propria salute mentale. Il non volerne parlare o evitare di farlo non permette loro di trovare un valido aiuto per risolvere il problema.
Questa tendenza è diffusa soprattutto nel settore militare. I soldati, infatti, difficilmente parlano dei sintomi associati per esempio al PTSD - Disturbo Post-Traumatico da Stress - e la loro riluttanza è maggiore quando vengono sottoposti al PDHA - Post-Deployment Health Assessment -, un questionario di valutazione che serve per raccogliere informazioni sulla loro salute mentale al ritorno da una missione. Ciò sembra dovuto al fatto che i dati ottenuti con questo test vengono forniti all'esercito americano e inseriti nelle cartelle militari dei soldati coinvolti e possono, quindi, compromettere in qualche modo la loro carriera.

Ricerche precedenti al presente studio hanno mostrato come la segnalazione dei sintomi avvenga più facilmente se effettuata in forma anonima, anche quando si tratta di sintomi del PTSD riferiti da soldati. Uno studio del 2011, per esempio, riporta come, a seguito di un combattimento, un sottogruppo di soldati in servizio che aveva risposto in modo anonimo alle domande del PDHA avesse riferito sintomi da 2 a 4 volte maggiori rispetto a chi era stato sottoposto al PDHA ufficiale.

Altri studi si sono invece concentrati sull'utilizzo di intervistatori umanoidi computerizzati per condurre colloqui clinici. Da queste ricerche è emerso come le persone siano più propense a rispondere ad un intervistatore "virtuale" piuttosto che ad uno in carne ed ossa, soprattutto quando viene garantito loro che quella figura digitale non è "guidata" da nessuno. Ciò è dovuto al fatto che il colloquio così condotto da un lato viene percepito come anonimo, dall'altro porta ad aprirsi maggiormente in quanto l'intervistatore virtuale, oltre all'aspetto, assume anche altre caratteristiche umane - come comunicazione verbale e non verbale - che favoriscono la nascita di un rapporto e di sentimenti di connessione sociale per gli intervistati.

Alla luce di tutto questo, gli studiosi californiani hanno allora ipotizzato che anche i soldati potrebbero essere maggiormente disposti a riferire i sintomi di PTSD ad un intervistatore virtuale piuttosto che attraverso un PHDA ufficiale o una sua versione anonima. Il presente lavoro è quindi nato per verificare questa ipotesi.

Sviluppo della ricerca.
La ricerca californiana è stata condotta attraverso 2 studi:

  • il primo studio ha riguardato 29 membri - tra cui 2 donne - del Colorado National Guard, di età media 41,46 anni (range: 26-56 anni), che erano stati schierati per un anno in Afghanistan;
  • il secondo studio, invece, si è concentrato su un campione di 132 soggetti - tra i quali 16 donne - composto da membri del servizio attivo e veterani, di età media 44,12 anni (range: 18-77 anni).

Studio 1.
Nel corso del primo studio i sintomi di PTSD sono stati riferiti dai partecipanti attraverso 3 modalità differenti:

  1. PDHA ufficiale
  2. versione anonima del PDHA
  3. colloquio con un intervistatore umanoide computerizzato

Tra le domande del PDHA, alcune servivano per verificare se il soldato in servizio riportasse 3 sintomi diagnostici dei disturbi mentali: ricordi intrusivi, evitamento/paralizzante e ipervigilanza.
Nello specifico, veniva chiesto ai partecipanti se nel mese precedente avessero vissuto un'esperienza così spaventosa, orribile o sconvolgente da:

  1. aver avuto incubi o averci comunque pensato involontariamente (sintomo ricordi intrusivi);
  2. aver cercato di non pensarci o di evitare situazioni che potessero portare a ricordare quell'esperienza (sintomo evitamento/paralizzante);
  3. essere stati costantemente in guardia, vigili, ecc. (sintomo ipervigilanza)

I partecipanti dovevano selezionare "si" oppure "no" su ciascuna di queste 3 risposte, destinate a finire in seguito nelle cartelle di salute militare ufficiale.

In un secondo momento, i partecipanti allo studio hanno risposto a domande di una versione computerizzata del PDHA, in forma questa volta anonima, selezionando "si" o non fornendo alcuna risposta per ogni elemento. In questa fase era stata data loro garanzia di anonimato: le risposte sarebbero state identificate attraverso un codice numerico del partecipante.

Infine, i soldati sono stati sottoposti ad un'intervista di screening con un intervistatore umano virtuale. In questo caso è stato detto loro che nessuno li avrebbe osservati in quel momento e che le registrazioni video del colloquio sarebbero rimaste nelle mani del team di ricerca.

L'intervista è stata sviluppata in 3 fasi:

  1. fase 1, concentrata sulla costruzione dei rapporti. Durante questa fase l'intervistatore poneva domande generiche (per esempio chiedeva al soldato quale fosse il suo paese d'origine);
  2. fase 2, corrispondente alla fase clinica. L'intervistatore poneva una serie di domande che riguardavano i sintomi del soldato. Tra queste, rientravano anche le domande del PDHA, leggermente riformulate rispetto alla versione ufficiale classica (per esempio veniva chiesto: "puoi raccontarmi di tutti i brutti sogni che hai avuto sulle tue esperienze");
  3. fase 3, la fase finale. L'intervistatore cercava di migliorare l'umore dell'intervistato, ponendo domande per esempio su quali fossero le cose di cui era orgoglioso.

Le risposte fornite durante il colloquio dai partecipanti potevano essere più "aperte" rispetto ai classici "si" "no".
Durante le varie fasi, inoltre, l'intervistatore virtuale assumeva espressioni, toni, gestualità, il cui fine principale era quello di costruire un rapporto con il soldato, rivolgendogli anche affermazioni come "mi dispiace di sentire questo" (feedback empatico).

Studio 2.
Dal momento che si trattava perlopiù di veterani e/o soldati che non erano appena tornati da una missione, i 132 partecipanti al secondo studio non sono stati sottoposti al PDHA ufficiale, ma solo alla sua versione computerizzata anonima e al colloquio con l'intervistatore virtuale umano. Di conseguenza, mentre nello studio 1 le domande del PDHA anonimo erano uguali a quelle del PDHA ufficiale, in questo caso, invece, sono state formulate esattamente come quelle poste poi durante il colloquio dall'intervistatore virtuale. In questo modo i ricercatori potevano essere sicuri che le differenze riscontrate tra le risposte dei partecipanti non potevano esser dovute ad una formulazione differente delle domande tra una fase e l'altra.

Risultati della ricerca. Dalle analisi delle risposte fornite durante il primo studio e da quella riguardante il secondo studio i ricercatori canadesi hanno ottenuto gli stessi risultati: tutti i soldati si erano mostrati maggiormente propensi a parlare dei propri sintomi con l'intervistatore virtuale piuttosto che attraverso il questionario ufficiale o la sua versione anonima.
Nel corso del primo studio, infatti, i soldati appena tornati dalla missione avevano fornito più informazioni attraverso il colloquio, così come avevano fatto in seguito i veterani.

Conclusioni. Per il team della University of Southern California la preferenza per l'intervistatore virtuale mostrata da soldati e veterani potrebbe essere dovuta proprio alla particolarità di questo modo di raccogliere informazioni sulla loro salute mentale: se da un lato, infatti, parlare con la figura umanoide dà al soggetto la sicurezza dell'anonimato (non essendo l'intervistatore guidato da nessuno), dall'altro il suo modo di fare, il suo avere atteggiamenti, toni, posture, espressioni facciali ecc. da umano, fa sì che si instaurino rapporti, che sorgano sentimenti di connessione sociale che portano l'intervistato a lasciarsi andare con più facilità. Questo potrebbe rappresentare un valido aiuto, perché parlando dei propri sintomi con l'intervistatore virtuale e ricevendo da lui feedback sul rischio di PTSD, i soggetti potrebbero sentirsi incoraggiati a cercare aiuto per risolvere il problema e, di conseguenza, accedere ai trattamenti necessari.

Tuttavia gli studiosi californiani ritengono che sia necessario dar vita ad ulteriori ricerche in questo campo, studi il cui scopo deve essere quello di escludere del tutto altre possibili spiegazioni alla preferenza per il colloquio con l'intervistatore virtuale. Tra le ipotesi, infatti, c'è quella che a spingere i soldati a fornire più dettagli sui propri sintomi non sia in realtà l'intervistatore virtuale in sé, bensì la natura aperta delle domande poste durante il colloquio. Per escludere questa spiegazione, dunque, in futuro potrebbe essere utile sottoporre ai soggetti intervistati versioni aperte anche delle domande del PDHA ufficiale.

Fonte
  • Gale M. Lucas et al., "Reporting Mental Health Symptoms: Breaking Down Barriers to Care with Virtual Human Interviewers", articolo pubblicato su Frontiers in Robotics and AI, 12 Ottobre 2017
    www.frontiersin.org/articles/10.3389/frobt.2017.00051/full#B30
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Commenti: 1
1 Erminia De Paola alle ore 16:51 del 08/12/2017

Il rapporto diretto con lo psicologo/psicoterapeuta, se caratterizzato, sin  dal primo incontro, da un clima di accoglienza, di comprensione e di ascolto empatico, finalizzato a creare la relazione di aiuto, può essere uno spazio privilegiato, un'area protetta e riservata dove il paziente/cliente si sente libero di esprimersi. Uno spazio simbolico dove è necessaria la sospensione del giudizio e dove il pregiudizio o il preconcetto potrebbero creare ostacoli o barriere nella costruzione dell'alleanza terapeutica. Ciò che viene comunicato è qualcosa di più della verbalizzazione: è una gestalt, una comunicazione verbale e non verbale dove il contesto ha una valenza importante nel connotare la stessa comunicazione o flusso comunicativo. Le domande aperte, per gli addetti ai lavori, favoriscono una maggiore predisposizione alla comunicazione e, quindi, maggiori informazioni sugli aspetti cognitivi e non del paziente.  Tale relazione diretta con lo psicologo non esclude l'utilizzo di strumenti o tecnologie facilitanti.

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