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Recensione libro: "Donne che corrono coi lupi"

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Recensione libro: "Donne che corrono coi lupi"

L'articolo "Recensione libro: "Donne che corrono coi lupi"" parla di:

  • Il dialogo con l'inconscio attraverso storie, miti e fiabe
  • Il predatore psichico della donna selvaggia: cenni di clinica
  • Simbologia delle fiabe, storie segrete e racconti in terapia
Psico-Pratika:
Numero 88 Anno 2012

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Articolo: 'Recensione libro: "Donne che corrono coi lupi"'

A cura di: Luciana Morelli
Recensione libro: Donne che corrono coi lupi


Scheda libro
Titolo: Donne che corrono coi lupi
Autore: Clarissa Pinkola Estés
Traduzione: Maura Pizzorno
Editore: Edizioni Frassinelli
Edizione: 1993
Pagine: 503
Prima edizione: 1992
Titolo originale: Women who run with the wolves

    INDICE: Recensione libro: "Donne che corrono coi lupi"
  • Introduzione
  • Le storie
  • Immaginazione attiva
  • La Donna Lupa
  • Barbablù e il predatore naturale
  • La Donna Selvaggia
  • Vassilissa
  • La Piccola Fiammiferaia
  • Il Brutto Anatroccolo
  • Storie segrete
  • Le storie in terapia
  • Conclusioni
  • Bibliografia
  • Altre letture su HT
Introduzione

Ci sono libri che non dimentichi e a cui riservi un posto ben visibile nella libreria, perché possano essere subito rintracciabili, esser ripresi in mano, riletti, anche solo in alcuni passaggi.
Per me "Donne che corrono coi lupi" è uno di questi libri.

Comprai e lessi questo saggio nella sua prima edizione italiana agli inizi degli anni '90, attirata dai molti racconti e fiabe che l'Autrice vi presenta e analizza.

Come lei amo e considero importante il prezioso materiale e patrimonio costituito dai racconti popolari, i miti, le fiabe.

Ma terminata la lettura, il mito della Donna Selvaggia - fil rouge di questo testo - mi aveva rapita, illuminata, profondamente e "visceralmente" stimolata per il suo contributo alla descrizione della psiche femminile, in particolare quella più naturale e selvaggia, istintiva e ancestrale.

Clarissa Pinkola Estés, analista junghiana con dottorato in Psicologia etno-clinica, in questo suo saggio enuclea infatti una serie di archetipi di tipologie femminili, attraverso un'interessante interpretazione psicoanalitica, ma che ogni donna - anche "digiuna" di Psicoanalisi - può comprendere e apprezzare perché attinge a un'antichissima memoria, aiutandola a venir su e a riprender vita.

Le storie

L'Autrice, oltre che Psicoanalista e studiosa di etnologia, è una cantastorie, una "cantadora", secondo la definizione della sua stirpe ispano-messicana.
Utilizza le storie in terapia con le sue pazienti, spesso seguendone il materiale onirico che contiene intrecci e storie, per rintracciare «il mito o la fiaba-guida che contiene tutte le istruzioni di cui una donna ha bisogno per il suo sviluppo psichico» (Clarissa Pinkola Estés, "Donne che corrono coi lupi", Frassinelli, 1993, pag. 14).

Le storie infatti, secondo l'Autrice, «sono disseminate di istruzioni che ci guidano nelle complessità della vita» (ibidem, pag. 15). Spesso anche le sensazioni fisiche e le memorie corporee delle pazienti sono storie che la Terapeuta aiuta a leggere e riportare alla consapevolezza, attraverso domande specifiche e spiegazioni di fiabe, miti, racconti popolari.

Nel senso più antico le storie sono un'arte curativa, sono medicine, balsamo potente, «vitamine per l'anima» (ibidem, pag. 20). Attraverso di esse, scrive l'Autrice: «maneggiamo energia archetipica» che porta a cambiamenti.
Clarissa Pinkola Estés insegna inoltre, attraverso la sua esperienza con le storie, «una forma di potente trance interattivo che è assai vicino all'immaginazione attiva di Jung» (ibidem, pag. 14).

Immaginazione attiva

Il metodo dell'immaginazione attiva è un mezzo per dialogare e confrontarsi con l'inconscio e i suoi contenuti, introdotto da Carl Gustav Jung nel lavoro analitico e da lui definito attraverso tre verbi: geschehenlassen, betrachten, sich auseinandersetzen.

Il primo, che può esser tradotto con "lasciar fare", indica la grande disponibilità con cui la nostra parte conscia deve rivolgersi alle manifestazioni inconsce, allentando la presa razionale su di esse.

Il secondo verbo, che significa "considerare con attenzione", fa riferimento alla necessità di fare attenzione ai significati nella loro originalità, evitando di ridurli a schemi conosciuti.

Il terzo verbo infine, che può tradursi in "spiegarsi con", indica il venire a comprensione e spiegazione dei contenuti inconsci emersi. Questi si manifestano in varie forme, visiva o uditiva.

Ad esempio, le persone che "dialogano visivamente" - tipi visivi - con il proprio inconscio usando questa tecnica, che è frutto di lungo allenamento, si devono concentrare in attesa che si producano immagini interiori.

I tipi uditivi, ossia coloro in rapporto uditivo con la propria interiorità, devono prestare ascolto alla voce che parla dentro di loro; altri invece esprimono i contenuti inconsci "forgiandoli" attraverso le mani, nella forma di un disegno, di una pittura o di una scultura.

La tecnica proposta da Jung consiste nell'allenare l'Io, ossia la parte conscia, affinché la persona possa instaurare un dialogo reale con i contenuti del proprio inconscio, semplicemente accettando (ossia lasciando fare), registrando (ossia considerando con attenzione), interrogando e rispondendo (ossia spiegandosi con) quanto emerge dalla propria interiorità.

In questo modo ciò che "abita" le profondità della nostra mente non ci sarà più alieno e sconosciuto, ma assumerà una dimensione concreta e familiare con cui poterci confrontare e in cui riconoscerci.

Al pari della tecnica junghiana le storie e i miti favoriscono la creazione di uno spazio in cui è possibile incontrare l'inconscio e dialogare con esso.

La Donna Lupa

I miti e le storie che Pinkola Estés riporta in questo testo sono le trascrizioni integre e dettagliate di quelle utilizzate nelle sue lezioni con i gruppi, così come nelle sue sedute terapeutiche con i pazienti.

La prima storia che incontriamo nel libro è quella di "La Loba", che l'Autrice scoprì negli anni Sessanta alle frontiere del Texas, all'inizio della sua migrazione a caccia di storie attraverso gli Stati Uniti.

Protagonista è la "vecchia donna lupa", pelosa, grassa e solitaria, che vive nel deserto, chiamata appunto Loba ma anche con altri nomi come La Que Sabe, Colei che sa, oppure Huersera, cioè Donna delle ossa, o Trapera, raccoglitrice.

Unica sua occupazione è infatti la raccolta delle ossa e in particolare quelle dei lupi.
Quando ha riunito un intero scheletro, seduta accanto al fuoco, canta sulle ossa ricomposte e le creature, di nuovo coperte di carne e pelo, tornano in vita.

Questa ciclicità di Vita/Morte/Vita è una caratteristica centrale della natura selvaggia e istintuale delle donne.

Le ossa rappresentano la forza indistruttibile, la natura istintuale e la vecchia Loba ne è la custode. Essa ci mostra le cose preziose che - nelle nostre profondità - dobbiamo raccogliere, ricomporre e a cui possiamo ridar vita.

È un lavoro solitario da svolgere nella nostra psiche profonda e ogni donna può percorrere sentieri diversi come quello della danza, della pittura o della scultura, del canto o della musica, della meditazione o della preghiera, della scrittura e della poesia; ciascuno condurrà alla scoperta di ciò che dentro se stesse è andato in pezzi, ma che può essere raccolto e ricomposto per assumere nuova vita, incarnare aspetti nuovamente vitali.

Barbablù e il predatore naturale

Se la Loba è creatura istintuale, selvaggia che nutre e dà forma all'anima, un'altra forza istintuale ma antagonista, portatrice di distruzione, è il predatore naturale.
Questa forza, innata, separa la donna dalla sua natura intuitiva, lasciandola indebolita, fragile, incapace di andare avanti.

Una storia esemplare che incarna il mito del predatore è quella di "Barbablù", le cui versioni più note sono quella francese e quella tedesca.

In questa fiaba si narrano le vicende di un ricco e temibile signore e di una giovane e ingenua sposina. Il barbuto signore era già stato sposato diverse volte, ma ciascuna moglie era sparita e se ne ignorava il destino. Si vociferava che fossero morte e che i loro corpi fossero chiusi in una stanza segreta del castello.

La giovane ultima promessa sposa, in barba alle voci, pensa che il suo signore non sia cattivo né pericoloso e che non le potrà fare alcun male.
Accetta quindi il matrimonio ma si inganna.

Non presta ascolto ai consigli delle sorelle e calpesta le sue sane intuizioni, il suo istinto.
Molte donne si sposano quando hanno ancora ingenuità nei confronti dei predatori e scelgono una persona distruttiva per la loro vita, decise a "curarla" con amore, ripetendo a se stesse, per cercare di convincersi, che «la sua barba non è poi così blu».

La donna ingenua accetta di non sapere.
La promessa ingannevole del predatore è che, in qualche modo, la donna diventerà regina, mentre in realtà si prepara la sua morte.

Il predatore fa appello alle parti deprivate e desideranti della donna-preda, nascondendo il suo unico scopo: trascinarla in cantina e succhiarle la sua energia.

Spesso la donna uccide la sua natura creativa, la sua anima selvaggia sotto il ricatto del predatore, «ecco perché giacciono, ridotte a scheletri e cadaveri, nella cantina di Barbablù. Troppo tardi hanno saputo della trappola» (ibidem, pag. 72).

C'è un modo per uscirne, ma ci vuole la chiave che apra la porta dell'orrenda stanza segreta, metafora della distruzione della sua vita; solo decidendo di aprire quella porta - decidendo di sapere - la donna sceglie la vita.

La porta nella storia è presentata come una barriera psichica, una guardia interiore che impedisce di ammettere e di ascoltare ciò che già sappiamo per istinto.
Porsi la domanda giusta, che ci trasforma, è la chiave capace di aprire quella porta, introducendoci alla consapevolezza.

Barbablù è una storia di ingenuità psichica, importante per le donne giovani e ingenue ma anche per quelle il cui istinto è stato leso, ferito.

«Porta alla consapevolezza la chiave psichica, la capacità di porre qualsiasi domanda (...) e trovare le risposte giuste alle domande più profonde e oscure».
(ibidem, pagg. 66 - 67)
«Le domande sono le chiavi che fanno spalancare le porte segrete della psiche».
(ibidem, pag. 53)

Quando le donne aprono certe porte segrete della loro esistenza, per lo più scoprono di aver permesso l'assassinio dei loro sogni e desideri più cari, la morte delle loro speranze, dei loro progetti più importanti.

Una volta apparsa la terribile verità della stanza della morte, non possono più far finta che non ci sia, è dolorosissimo ma fa fare loro qualcosa di efficace per sfuggire al predatore, recuperando intuito e visione interiore.

Il predatore è particolarmente aggressivo nel tendere trappole alla natura selvaggia della donna, schernendola, allontanandola dalle sue aspirazioni, dai suoi sogni.

Le donne che riescono a resistere alle seduzioni/minacce del loro predatore e a smantellarlo, vincerlo, spalancando la porta per vedere cosa c'è dietro, si scoprono infatti piene di energia e vitalità.

Il predatore naturale della psiche compare anche nei sogni delle donne, è l'Uomo nero che può avere le sembianze di un violentatore, di un assassino, di un ladro, di uno strangolatore...

Spesso sono sogni che suonano come un campanello d'allarme, indicano un inizio di consapevolezza riguardo al predatore psichico e compaiono quando c'è bisogno di un cambiamento o quando tale cambiamento psichico è vicino.

«Il sogno dell'uomo nero spesso basta a spaventare una donna tanto da farla tornare alla creatività».
(ibidem, pag. 71)

I comportamenti di alcune donne, soprattutto nell'ambito delle relazioni sentimentali-amorose, sono autolesionistici, improntati alla sottomissione e alla sofferenza.
Queste donne sono "disposte" a subire ogni umiliazione da partner disprezzanti e spesso violenti, purché non le abbandonino.

Spesso a livello cosciente desiderano incontrare un partner che le ami e le rispetti, a cui non sottomettersi, con cui vivere una vita serena, appagante, ma inconsciamente ricercano poi proprio quelle esperienze o persone con cui è impossibile realizzare tutto questo.

La ricerca inconscia di sofferenze e umiliazioni molto spesso ripete compulsivamente un copione relazionale passato, vicende traumatiche infantili, come maltrattamenti, deprivazione affettiva, violenze, nel tentativo di modificarne il doloroso vissuto, ma anche perché è l'unica realtà possibile per loro, l'unico tipo di relazione che conoscono.

Esemplifico con il caso clinico di una quarantenne, donna intelligente, professionista brillante e molto stimata ma dipendente affettivamente.
Passata attraverso varie relazioni sentimentali tutte frustranti e più o meno autodistruttive, viene in consultazione per decidere se rimanere nella relazione attuale o affrontare una separazione.

Il partner, dalla personalità narcisistica, inaffidabile, manipolatore affettivo, ha atteggiamenti prevalentemente svalutanti, squalificanti, non attenti nei confronti della compagna che - in una rassegnazione che non le è propria in altre sfere della sua esistenza - accetta ogni umiliazione pur di rimanere con lui, non riuscendo a immaginare la vita senza la sua presenza accanto.

Nel percorso intrapreso, vinte le iniziali resistenze, ricordando l'infanzia racconta dell'imprevedibile e inaffidabile comportamento del padre, uomo affascinante a cui la piccola era molto attaccata, ma con frequenti sbalzi d'umore e crisi di collera che sfogava spesso maltrattando la moglie che sopportava, senza reagire, "per il bene dei figli".

Fin dalla sua prima infanzia, la paziente aveva imparato così a sopportare la rabbia, il disprezzo, le umiliazioni da parte del padre, per averne in cambio l'attenzione, l'affetto, soprattutto per non rischiare di essere da lui abbandonata.
Solo dopo molti mesi di lavoro psichico, è riuscita a scalfire la sua credenza di un destino ineluttabile secondo cui non si sentiva degna di relazioni migliori.

Ridando spazio alle sue parti vitali, è riuscita a riparare le ferite passate e a trovare, finalmente, la forza di distaccarsi dal partner, sostituto del suo antico oggetto d'amore, il padre. E quando si ripristinano gli istinti danneggiati, la Donna Selvaggia ricompare.

La Donna Selvaggia

La Donna Selvaggia, ferina e allo stesso tempo materna, sa riconoscere il predatore e sa come trattarlo, ne conosce i travestimenti, i trucchi, le manipolazioni.
Sa tenergli testa, facendo quello che occorre fare.

Inizialmente è dura per la donna stare con la sua parte selvaggia, riparare l'istinto ferito, bandire l'ingenuità, imparare a riconoscere e ascoltare gli aspetti più profondi della psiche, facendo sentire a gran voce ciò che vogliamo.

Recuperato il femminino selvaggio, l'intuito istintivo, raccolti e riportati in vita preziosi e nascosti valori psichici, è possibile però sentire di appartenere di nuovo profondamente a noi stesse, riprendere i nostri cicli, avere una presa sulla nostra vita, tornare "a casa".

Molti sono i modi e i mezzi per vivere con la natura istintiva, ma l'Autrice stila un breve elenco, un decalogo per cominciare, tratto dalle regole dei lupi per la vita.

Coglie infatti una somiglianza tra la donna sana e il lupo:

  • piena di energia,
  • capace di dare la vita,
  • pronta a difendere il territorio e i cuccioli,
  • inventiva,
  • leale,
  • errante.
Vassilissa

Questa antica fiaba russa, le cui radici archetipiche risalgono ai culti dell'antica dea-cavallo anteriori alla cultura greca classica, è una storia di iniziazione femminile, come recupero dell'intuito, tesoro e grande potere della psiche della donna.

L'iniziazione è qui messa in atto attraverso nove compiti che la bambina Vassilissa deve portare a termine, dopo la morte della madre, presso la strega Baba Jaga a cui è stata inviata dalla matrigna e guidata dalla bambola lasciatale in eredità dalla madre.

Simbolicamente sono rappresentati i compiti psichici, nel passaggio all'adolescenza, quando scompare la dolce e protettiva madre dell'infanzia e devono essere affrontate sfide, ostacoli per recuperare la propria natura istintiva.

«Lasciamo il capezzolo e impariamo ad andare a caccia» (ibidem, pag. 86) incoraggia Pinkola con un'eloquente immagine.

La Baba Jaga, dietro il suo aspetto spaventoso, è anche Madre Selvaggia e maestra che insegna a Vassilissa i grandi poteri selvaggi della psiche femminile, i poteri dell'intuito.

Alla fine, invece di essere uccisa e divorata dalla strega come desiderava la matrigna, la piccola orfana riceve da Baba Jaga anche un teschio acceso su un bastone, da portare con sé ritornando a casa.

La luce del teschio è ulteriore rappresentazione dell'intuito e della consapevolezza profonda. Un modo fondamentale per mantenere il collegamento con il selvaggio è infatti chiedersi che cosa si vuole veramente, quali sono i desideri più profondi, discriminando e individuando le «cose che chiamano dall'anima» (ibidem, pag. 112).

L'epilogo della storia vede la protagonista "vittoriosa" sulla sua iniziazione.
Vassilissa ha imparato a seguire la sua conoscenza, a lasciare vivere quello che può vivere e lasciare morire quello che deve morire.

La Piccola Fiammiferaia

Come simbolo della «Donna congelata» (ibidem, pag. 316), ossia della donna circondata e immersa in un gelo affettivo "paralizzante", l'Autrice riporta la storia de "La piccola fiammiferaia", racconto antichissimo e che si narra in tutto il mondo in maniere diverse, anche se la versione più nota è quella di Hans Christian Andersen.

La bimba bisognosa vive in un ambiente che non l'apprezza e che non si cura di lei, costretta in una vita che congela i pensieri e la speranza.
Prega i passanti di comprarle i fiammiferi, offrendo in cambio di una monetina la cosa che ha più di valore: la luce e il calore.

Dare il proprio valore in cambio di poco provoca un'ulteriore perdita di energia, come accade alla donna che vive relazioni affettive o professionali di sfruttamento, svendendo a poco prezzo qualcosa di sé di prezioso.

Al freddo la piccola, invece di azione, tende a vivere di fantasia, non un tipo di fantasia positiva, veicolo per l'azione, ma invece negativa, ostacolante, che diventa per lei un forte anestetico e che la porta poi alla morte. Come scrive Pinkola:

«La donna congelata priva di nutrimento, tende ad elaborare continui sogni ad occhi aperti sul come sarebbe se...».
(ibidem, pag. 316)

Priva del sostegno vitale di persone calde che appoggino la sua vita creativa, trova conforto in fantasie che l'allontanano dalla realtà, fantasie letali, effimere e distruttive.

La donna può ad esempio fantasticare che il suo compagno cambierà o che ne troverà un altro, immaginarsi che potrà fare certe cose quando i bambini saranno grandi, ma intanto rimane ferma, non si muove, non agisce per portare un cambiamento alla situazione congelata in cui si trova.

Così come la piccola usa i fiammiferi per fantasticare, non per agire, la donna congelata usa le sue risorse psichiche per fantasie in cui spera che ogni problema e sofferenza sparirà magicamente.

E, come nella fiaba, la piccola fiammiferaia trova poi nella nonna così affettuosa la morfina finale, la donna congelata si trascina nel sonno del torpore della negazione e infine della morte psichica.

Il Brutto Anatroccolo

Storia fondamentale sull'archetipo del deprivato e del diverso, dell'esiliato, "Il brutto anatroccolo", scritto da H. C. Andersen a metà circa del 1800, compare nel testo di Pinkola Estés per evidenziarne i suoi due significati fondamentali, che ci interessano dal punto di vista psicologico:

  • La resistenza della natura selvaggia - di cui l'anatroccolo è simbolo - che, anche in situazioni critiche, lotta istintivamente, resiste senza cedere.
  • L'importanza del riconoscimento psichico e dell'accettazione nell'apportare vitalità e senso di appartenenza alla persona.

«Nella donna selvaggia la resistenza è una delle massime forze» ma «bambine dalla forte natura istintiva spesso soffrono molto nei primi anni di vita (...). Dalla più tenera infanzia sono tenute prigioniere, addomesticate (...). Generalmente l'esilio comincia presto (...) e la bambina comincia a credere che le immagini negative che di lei rimandano la famiglia e la cultura siano assolutamente vere (...), comincia a credere di essere debole, brutta, inaccettabile».

Nella storia mamma anitra, a cui rinfacciano d'aver avuto un piccolo troppo diverso, è emotivamente ambivalente e divisa, lacerata tra l'amore verso la propria creatura e l'accettazione della comunità. Alla fine crolla, costretta a scegliere tra il figlio e la paura che la comunità faccia del male a lei e al piccolo troppo diverso.

Riportando il messaggio di questa fiaba alla psiche femminile, Pinkola Estés rileva che quando una donna ha una madre interiore ambivalente, come quella del piccolo anatroccolo, può avere la tendenza a cedere troppo facilmente, ad avere paura a prendere posizione e chiedere rispetto, a vivere a suo modo (ibidem, pag. 178).

E quando ha introiettato nella psiche una madre che crolla, che cede come fa mamma anitra quando allontana il piccolo, la donna può sentirsi un'esiliata che non appartiene a nessuno e a nessun posto, ma deve alzarsi e andare alla ricerca di ciò cui appartiene, rifiutandosi di diventare come la madre o di uniformarsi (ibidem, pag. 180).

La ricerca di accoglienza e di amore può avvenire nei posti sbagliati, riaprendo le vecchie ferite, come avviene ad esempio a donne che scelgono cattive compagnie, cattivi amanti...

L'importante è insistere, andare avanti, continuare a cercare, come fa il piccolo anatroccolo, finché non trova la guida e la traccia giusta, la casa.

«È peggio restare nel luogo cui non si appartiene che vagare sperduti, alla ricerca dell'affinità di cui si ha bisogno».
(ibidem, pag. 187)

La natura selvaggia insiste e resiste, non cede, finché non trova la sua strada.
La donna la cui madre interiore è fragile, ambivalente o completamente accasciata, tanto da spingerla all'esilio, ha bisogno di cercare e trovare altre madri in donne più forti e in grado di comprendere, accogliere e valorizzare la sua natura profonda, la sua vera identità.

Può essere un'insegnante, un'amica, una terapeuta...

«Tutte noi abbiamo nostalgia per quella che sentiamo essere la nostra natura, la natura selvaggia (...) è questa nostalgia che ci conduce a resistere, ad andare avanti».
(ibidem, pag. 189)
Storie segrete

Un altro modo con cui la donna può ferire o danneggiare la propria natura istintiva e profonda è seppellire un segreto per anni e talvolta per l'intera vita, per paura di perdere l'amore, il rispetto, di rovinare una relazione importante, di essere rifiutata, di essere considerata indegna, di essere punita anche fisicamente.

L'Autrice dedica uno degli ultimi capitoli del suo libro alle "storie segrete" ascoltate dalle pazienti, dopo che le avevano a lungo tenute nascoste. I temi segreti sono solitamente: amori proibiti e clandestini, gravidanze indesiderate con aborti o figli segreti, abusi, inganni e manipolazioni, azioni violente auto o etero-dirette.

I segreti "della vergogna" diventano ossessivi, distruttivi, disturbando profondamente la psiche perché separano la donna dalla sua natura istintiva.

Per reprimere il segreto e mantenerlo a lungo, la donna anestetizza e intorpidisce tutte le parti inconsce vicine e associate a esso.

Per difendersi, nella sua psiche, dall'oscuro segreto, si protegge e si tiene lontana da tutto quello che potrebbe ricordarglielo e aumentare la sofferenza.

Il suo segreto influenza sotterraneamente le sue scelte, la sua vita, togliendole la libertà di essere e di fare ciò che vorrebbe.

La parte psichica più autentica, profonda, vitale rimane intrappolata e sepolta dalla vergogna e dalla paura, come una zona morta, buia in cui il segreto è seppellito, una zona ben protetta e chiusa, anche se il segreto trova comunque una via d'uscita, erompendo nel materiale onirico.

Tra le immagini oniriche più comuni, legate ai segreti, l'autrice riporta le luci tremule, vacillanti o che si spengono, le malattie per aver ingerito e mangiato qualcosa a cui non era possibile sottrarsi, il tentativo di urlare, ma senza voce.

Spesso il segreto trova una via d'uscita anche attraverso una somatizzazione o un disturbo depressivo.

Come scrive Pinkola Estés, la donna che porta il fardello d'un segreto è una donna esausta e l'unico modo di alleviarne il peso è svelarlo, parlandone con qualcuno di fiducia o scrivendolo, ritrovando la voce e facendosi sentire (ibid. pag. 370).

Nei piccoli gruppi di donne condotti dall'Autrice, ella sollecita e favorisce il racconto di "storie segrete" e il sostegno, lo scambio reciproco tra le donne presenti nell'affrontare le questioni e i segreti profondi che generano loro sofferenza.

Parlare, ritrovare la voce, le fa risorgere dalla zona morta, «bagnate dal pianto e non dalla vergogna» (ibid. pag. 377).

Talvolta, nel suo lavoro con le donne, le guida anche a preparare un lungo "capo espiatorio" o "capo da battaglia", una specie di mantello, in stoffa o in altri materiali, su cui vengono cuciti, incollati, appuntati elementi, da loro rappresentati attraverso varie forme espressive, simboleggianti tutti gli affronti e i rifiuti, le ferite e le cicatrici, i traumi sopportati durante la loro vita.

Spesso le donne desiderano conservare per sempre questi manti, come prova delle loro sconfitte e sofferenze, ma anche della loro forza e resistenza, della loro natura selvaggia.

Le storie in terapia

Da sempre nelle antiche culture, la storia è una medicina che guida e ridà vigore all'individuo e alla comunità. Anche nella Psicologia si assiste a un rinnovato interesse per l'uso e il significato delle storie in terapia.

James Hillmann (Analista junghiano) scrive che la terapia, recuperando la tradizione orale del narrare, ridà storia alla vita (1984). In realtà nel percorso terapeutico, paziente e terapeuta lavorano insieme a un racconto condiviso.

La persona costruisce e ricostruisce il proprio mondo narrandolo e il terapeuta guida, aiuta ad aprire una trama rigidamente fissa che si ripete sempre uguale, per rinarrarla e riscriverla.

Storie e metafore si utilizzano spesso nell'aiuto psicologico, perché il loro linguaggio analogico evocativo permette di creare immagini e sensazioni intense disarmando e aggirando le resistenze, e costituiscono quindi una leva importante per produrre cambiamenti ed effetti terapeutici.

L'utilizzo in particolare della fiaba in terapia è privilegiato nei modelli psicodinamici, psicoanalitici e soprattutto junghiani per i quali le immagini simboliche fiabesche esprimono e slatentizzano emozioni e conflitti.

Ad esempio Verena Kast (Analista didatta e docente a Zurigo) lavora con la fiaba che più "tocca" e fa vibrare il paziente, sfruttando nessi e analogie tra la fiaba stessa e la situazione psichica della persona.

Dapprima fa calare il paziente in determinate situazioni e personaggi della fiaba per esplorarne e approfondirne i vissuti, per far emergere tutte le complesse ambivalenze di un conflitto. Successivamente lo incoraggia a scrivere la propria versione personale della fiaba con cui stanno lavorando (Kast, 2006).

L'uso della fiaba si è rivelato utile particolarmente nei momenti in cui si verifica un blocco emotivo, uno stallo nel lavoro terapeutico, per facilitare la ripresa del percorso psicologico interrotto.

L'immaginario e la fiaba sono utilizzati spesso con bambini, adolescenti e i loro genitori, aiutando a focalizzare meglio obiettivi e ad affrontare difficoltà.

In alcuni casi è il Terapeuta che propone e racconta una fiaba al paziente, in altri invece è al paziente che viene chiesto di inventare una sua fiaba.

Sempre comunque essa aiuta a uscire da uno schema mentale per vedere il problema da un'altra prospettiva, perché l'immaginario ha innumerevoli capacità di trovare soluzioni.

Conclusioni

Questo saggio illuminante ci svela tutta la forza potente, creativa, appassionata, selvaggia e ancestrale nascosta in ogni donna. Ci guida anche a recuperarne l'istintualità e il sapere antico perduti nel tempo, perché la "Donna Selvaggia", che l'Autrice paragona alla lupa, è una specie minacciata e a rischio di estinzione.

La più intima vitalità racchiusa nell'animo femminile è rimasta in gran parte soffocata, domata, incanalata in stereotipi rigidi e i suoi cicli naturali sono diventati ritmi innaturali.
«In una confusione di attività... è spinta e costretta a essere tutto per tutti», scrive l'Autrice.

La Donna Selvaggia è la «voce che dice: "Da questa parte, di qua" (...), quello che ci fa andare avanti quando pensiamo di essere finite».

Questo libro è quindi consigliabile a tutte le donne di ogni età, dalle giovani che hanno bisogno di orientarsi e conoscersi nella loro crescita alle mature e anziane, perché mantengano o ritrovino i loro slanci e i saperi ancestrali, soprattutto quando la nostalgia dell'antica natura selvaggia si fa sentire.

Ho regalato questo libro a mia figlia, ad amiche di mia figlia e a figlie di mie amiche.
L'ho proposto a pazienti, anche solo per la lettura di determinate storie che ritenevo affini alla loro problematica e che, facendo leva sia sull'intelligenza che sulle emozioni, potessero produrre in loro un effetto di scoperta, di rivelazione, d'illuminazione improvvisa, una visione nascosta fino a quel momento.

Consiglio la lettura di questo libro agli Psicologi che lavorano con donne ma soprattutto alle Psicologhe perché, riavvicinandosi alla loro rigenerante natura selvaggia, possano meglio ascoltare e aiutare donne in cui tale forza è stata lesa, soffocata, in cui per motivi diversi la natura istintiva profonda è stata ferita e danneggiata, perché si possa ricostituirne l'integrità innata, i sani confini.

Naturalmente consiglio la lettura di questo testo anche agli uomini che amano le "donne che corrono coi lupi" e con loro vogliono correre.
Mi farà tanto piacere sentire cosa ne pensano.

Bibliografia
  • Bettelheim B., "Il mondo incantato-uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe", Feltrinelli, Milano, 1984
  • Burns G.W., "Centouno storie che guariscono. L'uso di narrazioni in psicoterapia", Edizioni Erikson, 2006
  • Hilmann J., "Le storie che curano", Cortina, Milano, 1984
  • Kast V., "Le fiabe che curano. Racconti popolari e psicoterapia", Edizioni RED, 2006
  • Pinkola Estés C., "Donne che corrono coi lupi", Frassinelli, Milano, 1993
  • Santagostino P., "Guarire con una fiaba-usare l'immaginario per curarsi", Feltrinelli, Milano, 2004
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Commenti: 3
1 Ada alle ore 11:14 del 08/11/2012

Mi è capitato di leggerne qualche stralcio che ho trovato simolante; nello scorrere questa recensione mi è venuto di rimbalzo il collegamento a un piccolo libro che amo molto, una raccolta di poesie "Vado via dalla luna" nelle quali la poetessa lascia le tracce della perdita e poi del recupero della propria anima e della propria identità. Trovo preziosi sia testi come "Donne che corrono coi lupi" che approfondiscono il tema dell'identità, sia testi che testimoniano in prima persona i vissuti del proprio percorso nel recupero di sé.

2 Donatella alle ore 15:06 del 08/11/2012

Sul mio comodino ci sono ,da tanto tempo , due libri che mi hanno illuminato Guarire con i perché . Il piccolo principe . DONNE CHE CORRONO COI LUPI. Altri libri mi hanno arricchito , di altri mi sono innamorata... Ma questi e soprattutto Donne che corrono... Sono parte di me, devo anche a loro quello che sono. Anch'io l'ho regalato a tante donne di tutte le età spesso non e' stato capito, tanto che ho pensato di essermi sbagliata e non l' ho donato più. Volevo solo ringraziarla di avermi " restituito" la bellezza del NOSTRO libro. Lo regalerò subito a mia figlia e già il pensiero mi rende felice. Un abbraccio da una donna che ancora cerca trova, perde e ritrova la sua parte selvaggia.Donatella

3 Marcella Graziosi alle ore 11:54 del 20/11/2013

Appena me ne hanno parlato sono corsa a comprare il libro (stamani), che ancora non ho letto(sono in ufficio) e di cui già subisco il fascino. Fatalità qualche mese fa ho scritto questa poesia che mi sembra in sintonia con quanto scrive l'autrice.

 

VALCHIRIE

 

Ebra di luce cavalco lupi
Lungo sponde alte e scoscese

Muschi e licheni i capelli
L’anima nuda

Il mondo in guerra
Raccolti corpi di eroi

Con me uno stormo
Donne guerriere

Il deserto brulica di vita
Domani l’ultima battaglia

Non risorgerà
Chi non ha creduto nell’amore

 

Marcella Graziosi 2013

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HT Psicologia - Recensione libro: "Donne che corrono coi lupi"

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