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Incidenti di percorso

Libero pensiero: Incidenti di percorso

Scritto da: Marilena alle ore 12:39 del 26/07/2012

Vorrei condividere una mia recente esperienza con voi e magari confrontarci sulla stessa.

Qualche settimana fa ho trascorso un week end al mare con la mia famiglia.
In spiaggia giocavo con i miei figli e ad un certo punto mi sento osservata.
Mi volto e, qualche ombrellone più in là, vedo un mio paziente, lui mi saluta e io ricambio il saluto.
Mi sono sentita molto in imbarazzo, "scoperta" e tutta una serie di altri vissuti personali hanno colorato questo fortuito incontro.

Questa presenza ha condizionato però la mia giornata e quella della mia famiglia, infatti ho preso un po' di tempo e poi ho deciso di lasciare la spiaggia, famiglia al seguito.
Non potevo rimanere lì né potevo lasciare "parti di me".

Ho una formazione psicoanalitica per cui il setting e le sue rotture hanno un peso importante sull'intero processo. Di sicuro quando riprenderemo gli incontri (ora sospesi per la vacanze) tale episodio sarà impiegato nel lavoro con questo paziente.
Però ora c'è lo "spiazzamento".
Non mi era mai capitato prima di incontrare un mio paziente, fuori dallo studio nella mia quotidianità, né mi è mai capitato di incontrare il mio analista fuori dalle sedute.

Per cui mi piacerebbe sapere da altri colleghi, indipendentemente dall'orientamento di riferimento, se avete mai vissuto un'esperienza simile alla mia e cosa avete, o avreste fatto, al posto mio.

Come gestite gli incontri fortuiti con i pazienti fuori dal "setting terapeutico"?

Grazie

Marilena

Commenti: 22
1 Rita Scarinci alle ore 19:43 del 01/08/2012

Ciao Marilena, sono una collega con lo stesso orientamento. Credo che sei ancora giovane del mestiere, questi episodi capitano, ora bisogna capire perchè sono capitati, se sei stata tu ha cercare il paziente e il paziente ha cercare te nelle spiaggia. l'incontro in qualche modo sarà riportato dal paziente in seduta e solo li potrai capire ciò che sono stati i vissuti del paziente, ma prima devi cercare di comprendere i tuoi. Rita

2 elisa alle ore 22:45 del 01/08/2012

Ciao Marilena, premetto che ho un orientamento Sistemico -Relazionale in cui il setting è fondamentale , ma mi vien da dire,  forse meno "rigido". Affermo ciò dopo avere conosciuto colleghi con un orientamento Psicoanalitico. Io vivo in una piccola cittadina e quindi al di là di capire se c'è una ragione del perchè avviene l'incontro con un mio paziente o meno ,  è molto  facile e frequente incontrarsi (al mare, al supermercato, in edicola, ect...). Mi è capitato in un paio di occasioni di "imbattermi" direttamente in un mio paziente (Ho salutato e cercato come te di organizzarmi per uscire dalla situazione). Devo dire che anch'io come prima reazione"di pancia" non ho gradito serenamente il fortuito incontro. Allo stesso tempo mi è anche capitato di incontrare la mia terapeuta in un ristorante (ognuna di noi era con le rispettive famiglie).....quello che mi viene da dirti è questo: abbiamo scelto di fare un mestiere che è estremamente difficile e spesso "scivoloso", ma il nostro lavoro si basa su di una ralazione terapeutica che avviene tra due persone (o più),  e appunto per questo motivo, può accadere anche di incontrarsi ....in ultimo come ti ha suggerito  la collega Rita, rifletterei   su "tutta la serie di altri vissuti personali che hanno colorato questo fortuito incontro".

Buon lavoro e Buona Estate

Elisa

3 Francesco alle ore 23:10 del 01/08/2012

ciao, sono un  collega terapeuta ad orientamento umanistico. La questione che poni si presta a condividere molti interessanti punti di vista e volentieri condivido la mia esperienza diretta.

E'successo più volte di incontrare persone fuori dal setting terapeutico (supermercato, momenti pubblici).

La prima domanda che mi faccio è: come ho vissuto questo incontro?In modo "naturale", come un fatto che può accadere (ed accadrà), vista la non controllabilità/prevedibilità di molte situazioni nella vita, oppure con disorientamento, disagio, sorpresa, piacere ecc...?

La seconda: è un "problema" per me-terapeuta?

La terza: è un "problema" per la persona?

alla prima ed alla seconda domanda è possibile rispondere personalmente guardandosi dentro,(quello che dice la collega Rita) ed in modo "sufficientemente onesto", aggiungo. Personalmente, all'inizio c'era più disagio e sorpresa, ora tendo a viverle in modo naturale e piacevole. Ad esempio saluto la persona e, se l'occasione si presta, scambio due brevi parole "di cortesia" (cosa che fa piacere).

Alla terza domanda può rispondere solo la persona interessata e, se devo essere sincero, non ho avuto riscontri sul fatto che questo potesse risultare un problema per il paziente. Di solito lascio che sia la persona stessa a parlarne direttamente in seduta chiarendo che tipo di vissuti ha avuto. Se c'è una buona alleanza e fiducia i vissuti sono largamente "positivi" ed agevolano il lavoro terapeutico che si sta facendo.

Rispetto alla domanda su cosa avrei fatto al posto tuo, non mi è possibile rispondere, ogni situazione e rapporto con un paziente è "unico". Quello che possiamo fare è utilizzare in senso terapeutico (e quindi al fine di un "buon esito" della terapia") anche queste situazioni.

Buon lavoro

Francesco

4 anna alle ore 00:59 del 02/08/2012

ciao marilena, anche io non ho un setting psicanalitico, non sento pero' una grande difficoltà nell'incontrare una persona con cui ho lavorato, o perlomeno solo per quello che la riguarda, cioe' mi porrei il problema di cercare di capire se è sola o con qualcuno e quindi se sia il caso di salutarla oppure aspettare che sia lei, se vuole, a salutarmi..io lavoro sempre come persona e con poche sovrastrutture e quindi mi sento abbastanza libera di poter essere me stessa anche se ci puo' essere un lieve imbarazzo..

credo che al tuo posto sarei rimasta in spiaggia e dopo qualche momento di imbarazzo mi sarei continuata a godere la giornata

Buon lavoro,

Anna

5 silviag alle ore 08:48 del 02/08/2012

Leggendo l'intervento ho subito vissuto con molta identificazione la descrizione, frenandomi.

Così ho vissuto i primi anni d' insegnamento, in due modalità 1. privata e personale 2. studenti regolari, di classe. Tuttavia la dinamica mi sembra assimilabile al caso 1. 

Nel setting ( e latamente in tutti i rapporti a due) viene stretto un patto tacito di 'non-belligeranza', per cui la figura fantasmatica dell'analista viene portata come 'interna difesa' nel mondo esterno, a rafforzare o contrastare il mondo interno, per così dire. Il materializzarsi del referente nell'oggettivo è il prendere forma di un 'fantasma' - ed un segnale d'allarme pre-razionale, pre-linguistico. Inutile richiamare la funzione di custodia: emerge nel cordone ombelicale che tende a crearsi e che è lo spazio ritagliato in cui si agisce, ci si trova bene, si forma la cuccia del self : io sono qui in spiaggia e rappresento me - e in parte l'analista, lo porto nella dinamica e lo faccio interagire con le obiezioni possibili. Ma ecco compare

lui e può smentire, distorcere perfino il proprio messaggio, o semplicemente adattarlo da proprio punto di vista. Una fase della formazione

 

                                           Silvia GOI

 

 

 

6 Cinzia alle ore 09:25 del 02/08/2012

Ciao,

il mio stile personale ed il mio orientamento che è cognitivo-comportamentale mi portano a vivere le relazioni fuori dal setting sicuramente in modo più naturale e meno carico di signifcati simbolici e nascosti. Anch'io però in questa situazione avrei vissuto un'iniziale imbarazzo ma poi sarei rimasta lì, imbarazzo legato al fatto di essere vista in costume e non al fatto di incontrare pazienti, purtroppo o per fortuna capita,noi e i nostri pazienti viviamo in un mondo mobile ed in evoluzione, non esiste solo lo spazio del setting, anzi io avrei usato questo momento per avere uno spaccato di vita vera del mio paziente ed eventulamente ne avremmo parlato in seduta. Io credo che si impari molto di più dall'imprevisto e dalla contaminazione che non dalla protezione e dalla prevedibilità. Spesso il disagio è più nostro che del paziente, disagio da cui ci difendiamo con intelettualizazioni, evitamenti ecc.

Cinzia

Cinzia

7 silviagoi alle ore 10:40 del 02/08/2012

Caspita, è vero - sulla spiaggia si è più nell'ambito del familiare e del protetto. E così è come se ti

sorprendessero alle spalle 'in casa', sotto il 'proprio' ombrellone, nel nido virtuale e in mezzo ai bambini...ti riduce a platea con quelli, deprivandoti del ruolo up, e questo dopo che la privacy

stessa del setting viene 'sciolta' - un patto non scritto: non si devono dire le cose relative

al paziente...ed eccolo che spunta con il secchiello e la paletta...io nel cine avevo dei soprassalti

nel riconoscere.

8 Fernando Bellizzi alle ore 17:45 del 02/08/2012

Io informo il paziente, in terapia, che in caso di incontro fortuito, se vuole salutarmi deve essere lui a prendere l'iniziativa, e che per privacy non sono io a stabilire il primo contatto.

A me capita d'incontrare pazienti, se mi fanno un cenno rispondo, se vedo che c'è imbarazzo faccio io un discreto gesto; si scambiano due parole sul luogo e si saluta. Ma è normale quando lavoro a Isernia. A Roma è più difficile.

Al mare non è mai successo. Vabbè, avranno questo spettacolo di me in mutande!

Per il mio approccio ericksoniano la cosa non è un problema ed è una possibilità. Linguaccia

9 silviagoi alle ore 07:53 del 03/08/2012

Impossibile non ricordare un vecchio film comico a tema psichiatrico: A piccoli passi...Il paziente

sentendosi inaccudito segue APPOSITAMENTE l'analista in una  vacanza che si voleva privata e segreta...lo psichiatra, un po' vanesio e in carriera, brillante autore di un testo-metodo ( A piccoli passi, appunto, titolo veramente azzeccato) non riesce ad impedire che gli invada il 'suo' mondo

e la famiglia stessa...una parabola solo lievemente antipsichiatria, post-anni '70, che però indica bene il 'nodo' della questione.

10 Smilja alle ore 17:32 del 04/08/2012

E se usassimo solo un pò di "comune buon senso", come dicono gli inglesi? Una persona non è la sua professione, nemmeno se svolge la professione di psico teraputa (analista o altro),ma è, come tutti, un essere umano e perciò ha ovviamente anche una sua vita privata. Qualsiasi individuo, quindi anche un paziente, ne è consapevole. L'esperienza di un incontro casuale o non casuale fuori dal setting può bensissimo essere affrontata nella sede opportuna - il setting. Quale è il vero problema? Paura da parte del terapeuta/analista di aver perso il proprio allone di mistero e potere "olimpico"? Consiglio di scendere fra i "comuni umani" per salvaguardare la propria sanità mentale! Risatona

11 alessandra alle ore 19:24 del 04/08/2012

Ciao Marilena. al tuo posto anch'io avrei provato un iniziale imbarazzo, soprattutto per essere quasi nuda (in costume) e poi per essere vista nei miei  altri quotidiani, normali e reali ruoli di madre, moglie, donna ecc.

Ma, come ha detto già qualcuno prima di me, è qualcosa che può accadere, siamo prima persone e poi terapeuti e qualsiasi cosa succede esternamente e internamente (come la viviamo) ci può e ci deve aiutare nel nostro lavoro con quel paziente. Anche sentire l'imbarazzo e viverlo...

Di sicuro non avrei lasciato la spiaggia perchè non avrei permesso che fosse questo evento a decidere il seguito della giornata mia e della mia famiglia e perchè avrei vissuto il mio lavoro come limitante la mia vita...

Interessante lo scambio di pareri su questo argomento!

Buone vacanze

Alessandra

12 silviaz alle ore 18:24 del 05/08/2012

Ostrega...non so...se uno si sente braccato ogni volta con tampinamenti di pazienti (non casuali intendo, come questo), porta la famiglia al cine e al minigolf !! Anche nell'insegnamento - vedendo spuntare il megapollo dell'angelo azzurro c'è chi se la dà a gambe...

E questa è solo una sana reazione di buonsenso comune...però certo, è più 'professional' restare...

13 Massimo alle ore 18:39 del 06/08/2012

Salve Marilena, io ho un orientamento cognitivo costruttivista e, rispetto agli incontri fuori dal setting, adotto del normale buon senso. Visto che possono capitare (sia in città che in piccoli centri) non mi faccio condizionare da questo incontro (anche perchè, se così facessi, tale condizionamento potrebbe riverberarsi nella relazione con il paziente in terapia) e cerco di comportarmi il più naturalmente possibile. Premettendo che, comunque, sarebbe una situazione da far emergere durante il lavoro terapeutico, al posto suo avrei salutato cordialmente e sarei rimasto comunque lì. Anche perchè, altrimenti, il paziente potrebbe farsi delle fantasie strane ("Perchè ha lasciato la spiaggia dopo che mi ha visto?", "Sono così poco amabile da far scappare anche il mio terapeuta!", "Se è possibile che il terapeuta non tolleri la mia presenza vicino a lui, quanto è solido questo terapeuta?", "Sono stato proprio importuno a salutarlo, magari ho invaso la sua privacy, infatti è andato via, non capisco proprio niente"...etc. etc.). Naturalmente ho esagerato molto negli esempi, ma sappiamo abbastanza cosa talvolta passa in testa dei nostri pazienti...Infine sì, sicuramente visto il quesito che chiede, probabilmente è il caso di approfondire come si è sentita quando si è accorta della presenza del paziente perchè, comunque, tale evento ha avuto un effetto concreto nella sua condotta, quindi probabilmente non è sicura di aver gestito come avrebbe voluto la situazione.Alla fine, però, "tutto fa brodo", nel senso che situazioni di questo tipo possono essere talmente tanto discrepanti rispetto al normale flusso di vita da poterci servire per migliorare ulteriormente la modulazione affettiva all'interno delle relazioni. In tal senso si può vedere come evento generativo di riflessione e cambiamento.

14 silviagoi alle ore 07:51 del 07/08/2012

Secondo me bisogna chiarire la casualità dell'evento...se si lascia nell'ambiguità il paziente può pensare che si tratti di una situazione, anche latamente, 'terapeutica', 'costruita per lui' magari proprio dallo psicologo, colto invece nel suo nido con i cuccioli di uomo...

15 Claudia alle ore 12:47 del 22/08/2012

Salve Marilena,Al di là degli orientamenti dei colleghi, ho notato come era da aspettarsi in una cornice di scambio fra psicoterapeuti, che quasi tutte le risposte si sono focalizzate sull'terapeuta.Giusto per allargare il campo di riflessione, mi chiedevo qual è lo spazio di ascolto che diamo ai nostri pazienti? lquale aspetto centrale del nostro lavoro.L'imbarazzo dell'analista può capitare ma l'imbarazzo del paziente?anche lui era con la sua famiglia,(nudo come qualcuno ha già osservato) in senza schermi, con la sua vita.Credo (sempre nel mio tentativo di allargare la questione) che un episodio del genere produce una sorta di equilibrio fra i due componenti del setting che può fornire utili informazioni se non ci fermiamo soltanto su di noi e sulle NOSTRE perplessità.Proprio in questi giorni un mio collega mi raccontava su un quesito che le aveva posto una sua paziente e alla quale lui non aveva trovato una risposta. La mia domanda fu: Dove c'è scritto che dobbiamo avere una risposta per tutto?Averla non  significherebbe mantenere una posizione up di estrema rigidità?Penso cara Marilena, che questo episodio potrebbe aprire ad altri significati ed'elaborazioni e che averti visto nuda come te ben dici, probabilmente aiuti la vostra relazione terapeutica a trovare nuovi equilibri.  E poi il setting è ogni giorno più flessibile se pensiamo a cambiamenti sociali che tutti noi tocchiamo con mano, sarebbe impensabile non trovare prima o poi un nostro paziente. Penso inoltre che il fatto di condividere queste tue perplessità, di là degli anni di esperienza che tu abbia, fanno di te una professionista consapevole della responsabilità sociale che il nostro lavoro comporta, e questo è di per sé un ottimo segnale.Un abbraccio. Claudia

16 mary alle ore 19:09 del 23/08/2012

ciao Marilena...grazie per aver condiviso la tua esperienza.leggendo il tuo racconto mi sono ricordata delle tante volte in cui io avrei voluto sapere della vita privata della mia terapeuta e del desiderio di poterne fare parte se fosse stato possibile...di esserne la figlia (l'età lo consentiva pure) perchè io stavo cercando proprio una mamma...chissà la tua paziente cosa ha pensato? cosa avrebbe voluto fare?magari avvicinarsi al tuo ombrellone e parlarti oppure no...forse questa situazione ha messo a nudo una tua modalità di agire quando ti trovi di fronte a situazioni impreviste..ti allontani...e forse questo succede anche nel "setting"...quanto puoi far avvicinare il paziente? a volte questi episodi "capitano" in momenti particolari della terapia...magari proprio quando c 'è una pausa e uno vorrebbe riposarsi e poi ecco che incontri il paziente...credo che la cosa di cui il paziente, ma anche ogni persona, sente di più il bisogno è sentire di esserci per l'altro con cui abbiamo un legame. ho la sensazione che in realtà dietro il tuo racconto ci siano domande che riguardino il tema della vicinanza come ad esempio cosa faccio vedere di me al paziente, cosa vede lui in me, come allontanarlo se le sue richieste diventassero per me ingestibili e come aderire invece alle richieste...ti è capitato anche in terapia di "allontanarti" dal paziente andandotene? in che occasione succede? a cosa ti serve? quali sentimenti provi oltre all'imbarazzo? colpa per averlo abbandonato? fastidio per l'invadenza? o altro non so. e continuando a "fantasticare"..cosa pensi sia successo dentro al paziente? e al vostro legame?ciao

17 mary alle ore 19:12 del 23/08/2012

un ultima cosa....per quale motivo il paziente ha iniziato la terapia? questo incontro casuale può in qualche modo essere collegato a quel motivo...trovare cioè degli elementi utili per la terapia?avrai capito che non credo agli incontri casuali. e quando capitano possono essere dei tesori da cui trarre spunti magari proprio quando la terapia sembrava essersi un pò arenata...un pò di fortuna.      

tante volte in terapia ho sentito la curiosità, il desiderio dei miei pazienti di saperne di più di me, se avevo figli, se ero sposata, quanti pazienti avevo....ad alcune domande ho risposto e poi ho cercato di usare le loro domande nella stessa seduta...esplicitando quelle che al momento potevano essere le mie interpretazioni o sensazioni circa l'interesse sulla mia vita privata.ma il discorso si fa veramente articolato...queste sono un pò di pensieri che mi sono venute in mente. ciaoSorridente

18 silviagoi alle ore 09:35 del 24/08/2012

Ipotesi:

Per guarire da una dipendenza affettiva cronica!...In questo caso sarebbe significativa la 'casualità' dell'evento. 

Tuttavia quest'ultimo intervento (mary) mi suggerisce uno spunto: quando il soggetto

crede alla casualità, questa convinzione ha riflesso sugli eventi in modo differente da quando crede alla premeditazione? Forse non ha senso fare un discorso di percentuali, ma di orientamenti più generali....

19 CINZIA alle ore 20:36 del 02/09/2012

Sono appena reduce da un'esperienza simile, io però sapevo che avrei potuto incontrare la mia paziente in quanto in terapia mi aveva parlato delle sue prossime vacanze e della località da lei scelta, del tutto casualmente. Io in quel posto ci vado da circa vent'anni capirai. Ho ritenuto opportuno informarla che anch'io sarei andata in vacanza lì e che probabilmente avremo potuto incontrarci. Ho sperato, lo confesso che questo incontro nn sarebbe capitato, ma ovviamente così nn è stato, e tra le decine di spiaggie possibili, eravamo proprio lì entrambe con le rispettive famiglie. Ci siamo appena salutate con un cenno e poi, poichè nn eravamo proprio vicine, abbiamo almeno apparentemente fatto finta di niente. Io ero molto imbarazzata, ma nn ho ritenuto opportuno andar via o cambiare i miei programmi, mi sarebbe sembrato un agito. Ho tenuto, e ora attendo il primo incontro dopo le vacanze per vedere cosa ce ne facciamo di tutto questo materiale.

20 silvia alle ore 17:46 del 09/09/2012

Certo, se è così un motivo pare affiorare..la cliente può aver interpretato come un auspicio o una richiesta latente il semplice prospettare la possibilità di un incontro...

21 Federica alle ore 23:54 del 20/02/2013

Ma guarda un po'... io sono una paziente al quarto anno di terapia con un analista Jungiano, abitiamo nella stessa piccola cittadina (nella Svizzera tedesca), piu o meno una volta all'anno ci incontriamo per caso. Ci salutiamo, scambiamo due commenti generici e via. E' successo anche 'stasera, alla Coop. Sono ancora qui a chiedermi che cosa ho sentito, e perche'.

Come le altre volte: una sorta di vergogna, un bisogno di nascondermi, di fuggire. Simile al post che ha aperto questo thread. L'incontro e' un momento affascinante, ma porta con se' un tono di paura. Soltanto dopo il distacco sorge  il rimpianto per aver perso un'occasione per socializzare, per osservare quest'uomo che frequento da anni ma in fondo non conosco, che mi e' cosi' dolcemente e ferocemente familiare, carico di mistero e portatore di una certo massiccia dose di pericolosita'. 

Io credo che questi incontri siano positivi, ma non so bene spiegare il perche'. Anzi, sono capitata su questo forum proprio per cercare di capire.   

22 smila alle ore 23:58 del 20/02/2013

Brava Fedrica! :)

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