Psicodiagnostica in adolescenza Assessment Cognitivo comportamentale: il caso di G
L'articolo " Psicodiagnostica in adolescenza" parla di:
- Psicodiagnosi in ambito cognitivo-comportamentale
Le difficoltà dell'assessment con l'adolescente Caso di applicazione dell'Autocaratterizzazione
Articolo: 'Psicodiagnostica in adolescenza Assessment Cognitivo comportamentale: il caso di G'
INDICE: Psicodiagnostica in adolescenza
- Introduzione
- I test in ambito congnitivo-comportamentale: brevi cenni
- La tecnica diagnostica dell'autocaratterizzazione
- Assessment e test in adolescenza
- Il caso di G
- Conclusioni
- Bibliografia
- Altre letture su HT
Introduzione
Nella pratica clinica, nel momento in cui ci viene inviato un paziente, ciò che ci troviamo di fronte è un punto interrogativo.
Questo punto interrogativo è solitamente declinato in una domanda, più o meno specifica o esplicita, di soluzione di un
problema, quella che il paziente ci porta.
Il nostro compito è quello di trovare una risposta a questa domanda e per poterlo fare, dobbiamo trovare una serie di risposte:
- sul funzionamento del paziente,
- sulle sue risorse,
- sul suo passato,
- sulla storia del disturbo,
- e su molti altri quesiti che sorgono dalla richiesta stessa di soluzione del problema.
In Psicologia l'assessment, ossia la valutazione volta all'analisi del funzionamento e dell'inquadramento della persona, è certamente
il punto di partenza per ogni tipo di terapia di ogni indirizzo e orientamento teorico.
Nello sfaccettato panorama delle correnti di pensiero, la base di partenza è sempre una: la persona che abbiamo di fronte, il
paziente.
La valutazione del paziente attraverso diversi strumenti è ormai pratica ampiamente diffusa tra i clinici, ciò che differenzia
un clinico da un altro può certamente essere l'uso di determinati strumenti rispetto ad altri.
La comunità scientifica ha, ad oggi, trovato netto accordo su tutta una serie di strumenti deputati alla valutazione psicodiagnostica
che hanno una validità e un'attendibilità ottimale e che quindi assicurano risultati affidabili.
La presenza però di un numero elevato di strumenti può creare confusione sull'utilizzo di quelli più adeguati, soprattutto
nel Terapeuta alle prime armi.
Ciò che sicuramente aiuta è l'orientamento derivante dalla cornice teorica di riferimento, in cui sono presenti test specifici
che danno valutazioni attendibili ma sulla base di concetti teorici familiari.
Un esempio può essere quello tra i test proiettivi come il Rorschach e test di personalità come il MMPI. Entrambi i test sono
largamente riconosciuti come affidabili ma mentre uno fa più riferimento a una cornice teorica psicodinamica, l'altro è certamente
più cognitivo.
Entrambi questi test, pur avendo una chiara cornice teorica non sono comunque immuni dalla possibilità di essere male
interpretati o codificati, non assicurano quindi il clinico dalla possibilità di commettere errori.
In questo articolo ad esempio vi racconterò di come sia "inciampata" in un errore nonostante fossi saldamente supportata dalla mia
teoria di riferimento.
I test in ambito congnitivo-comportamentale: brevi cenni
In terapia cognitivo-comportamentale, la presenza di test è numerosa e il loro uso è sollecitato e incoraggiato, proprio per
individuare in maniera precisa e quantificabile le aree problematiche che il paziente porta.
Tra gli strumenti più usati ci sono la CBA (Cognitive Behavioural Assessment), il SCL-90 (Syntoms Check List), il MMPI
(Minnesota Multiphasic Personality Inventory) e tutta una serie di strumenti più specifici, come l'autocaratterizzazione o
l'intervista "storia di vita" creati appositamente per l'individuazione di aspetti del funzionamento cognitivo e di attaccamento,
su cui è poi importante posare la nostra attenzione da Terapeuti cognitivi.
Mentre i test come la CBA sono strutturati classicamente con risposte a items, gli ultimi due strumenti sono di più articolata
somministrazione perché prevedono, nel caso ad esempio dell'autocaratterizzazione, una riflessione a casa - da parte del paziente
- su alcuni aspetti di sé e nel caso della storia di vita, un'intervista guidata dal clinico su aspetti relativi all'attaccamento.
La tecnica diagnostica dell'autocaratterizzazione
L'autocaratterizzazione è uno strumento creato da George Alexander Kelly, Psicologo costruttivista, che serve per
individuare nel paziente i costrutti che caratterizzano se stessi, la costruzione del mondo e, conseguentemente, la costruzione del suo problema.
Si presenta come un foglio bianco, in cui è scritta la formula:
Vorrei che scrivesse per me un profilo del suo carattere, così come potrebbe scriverlo un amico che la conosce molto bene, forse meglio
di chiunque l'abbia mai conosciuta. Si ricordi di scrivere in terza persona.
Può iniziare così: "Matteo è una persona...".
Si chiede al paziente di creare questa "fotografia" di se stesso e di riportarla alla seduta successiva.
L'analisi che poi in seduta si fa insieme al paziente è volta a esaminare tutte le definizioni che il paziente dà
di sé, degli altri e del mondo per carpire il significato che lui dà a queste definizioni e usarle poi per stimolare
il cambiamento.
Interessante è anche l'analisi delle resistenze o delle difficoltà che il paziente può aver avuto nello scriverla,
l'osservazione dello stile usato, della disposizione delle frasi, dell'uso della scrittura a mano o tramite computer.
L'autocaratterizzazione è quindi strumento molto utile in assessment perché fornisce un'infinità di informazioni e molti
spunti su cui indagare ulteriormente o intervenire.
Assessment e test in adolescenza
Mentre per quanto riguarda l'età adulta, l'uso di test non crea particolari resistenze o quesiti, o perlomeno questi sono facilmente
riconoscibili perché resi espliciti dal paziente stesso, per l'adolescenza è profondamente diverso.
Anzitutto, la presenza di test standardizzati per questa specifica fase evolutiva è piuttosto carente. Di fatti se per l'infanzia
e per l'età adulta il materiale è ampio, per l'adolescenza - proprio per le sue caratteristiche di instabilità e
varianza - gli strumenti sono pochi e poco affidabili.
Il discorso si complica se la ricerca si sposta su test non proiettivi.
Mentre infatti l'uso di test proiettivi come il Rorschach, il disegno della figura umana o il disegno dell'albero, mantengono la loro funzione
inalterata per qualsiasi fase evolutiva, quando ci si sposta su strumenti meno interpretativi e più cognitivi sorgono diverse
difficoltà.
Spesso l'assessment con l'adolescente è caratterizzato da una serie di colloqui in cui si esplorano le diverse aree di funzionamento
e le aree problematiche.
Per quanto riguarda i test, invece, vengono somministrate alcune scale tarate sull'adulto per poi osservarne i dati con la consapevolezza della
forzatura di questa pratica, come avviene per esempio nell'impiego del test SCL-90 (Syntomps Check List).
Questo test, composto da 90 items, è utile per sottolineare al clinico aree sintomatologiche problematiche (ansia, paranoia,
depressione, disturbi del sonno etc.) e contiene items riguardanti il desiderio sessuale o l'area lavorativa.
È quindi utile affiancare l'adolescente nella compilazione del test e modificare questi items traducendoli con domande più tarate
per l'età del soggetto.
Il risultato è che un clinico, con poca esperienza e con una scarsa formazione in ambito testistico interpretativo, si trova a
destreggiarsi con una serie di strumenti talvolta inadeguati, rischiando di inficiare il processo di assessment, sia nella sua funzione
principale di raccolta di informazioni, sia nella sua funzione vicaria, ma ugualmente fondamentale, di costruzione della relazione terapeutica.
Il caso di G
G è un ragazzino di 15 anni che mi fu inviato in sede di tirocinio presso una struttura per adolescenti con disagio sociale.
G, con una storia familiare alquanto travagliata alle spalle, risiedeva in comunità da diverso tempo, comunità in cui si trovava
piuttosto bene e dove aveva ripreso a frequentare la scuola serale, anche se con qualche difficoltà, soprattutto in termini di motivazione
e profitto.
La richiesta del consulto - partita dagli educatori e condivisa da G - riguardava la difficoltà del ragazzo nel gestire i
rapporti con la madre, gravemente depressa e incapace di accettare la lontananza del figlio, la quale a ogni incontro cercava di convincerlo
a ritornare a casa.
La situazione si era aggravata a causa della possibilità, ventilata dai servizi, di ritornare tra le mura domestiche. Ciò aveva
alimentato non poche ansie in G, convinto nella sua decisione di rimanere in un ambiente sano e contenitivo come la comunità ma
allo stesso tempo sentendosi in colpa per non assecondare le richieste della madre.
G si presenta al colloquio accompagnato dall'educatrice, è estremamente imbarazzato e a fatica riesce a mantenere lo sguardo.
Il colloquio è molto faticoso perché G è reticente a parlare, è in difficoltà nel trovare le parole e
spesso risponde alle domande con un «non lo so».
G ha una vita molto ritirata, passa parecchio tempo da solo, ha pochi amici, non gli piace la scuola e gli unici interessi che nutre sono
quelli per la bicicletta e per il body building.
Il rendimento scolastico è al minimo della sufficienza e la capacità di ragionare sulle emozioni in genere, oltre che sulle proprie,
è quasi nulla.
Dopo due sedute di colloquio estremamente difficili, sia perché povere di contenuti - tanto emotivi quanto concreti - sia per la
mancanza di direzionalità del mio intervento dovuta alla totale assenza di informazioni su cui lavorare, decido di proporre
a G di fare l'autocaratterizzazione.
Gli spiego in maniera molto chiara e accogliente di cosa si tratta, facendo leva sulla funzione meramente conoscitiva e non valutativa del
test, rassicurandolo molto e lasciandogli anche la possibilità di non farla.
G lascia la seduta di buon umore dicendomi che porterà il test la volta successiva.
La settimana dopo, ricevo una telefonata da G che mi informa che non sarebbe più venuto in terapia. Alla mia domanda sul perché
avesse preso questa decisione mi risponde: «non lo so».
Gli eventi esterni che hanno accompagnato queste due sedute, hanno sicuramente influito sulla motivazione di G alla terapia.
Difatti, proprio dopo la seconda seduta la decisione di farlo tornare a casa era stata definitivamente abbandonata e G non avrebbe più
dovuto pensare a questa possibilità.
Nonostante questi dati concreti che sicuramente hanno influito, il drop-out di G, ossia l'abbandono della terapia, è avvenuto
in un momento molto specifico, ovvero nel momento in cui l'assessment da me condotto aveva preso un sfumatura più operativa e
concreta.
Portando il caso in supervisione a una collega, le riflessioni suggeritemi furono riguardo a tre punti critici.
- Il primo - riguardante la motivazione al trattamento - vedeva me come terapeuta e G come paziente posizionati su due poli in
contrapposizione. G portava ansia relativa alla paura di tornare a casa e io inseguivo l'ipotesi relativa al senso di colpa di G.
Questa posizione diversa portava me a indagare aspetti che G non era pronto ad affrontare o che ancora non riconosceva.
- La seconda riflessione toccava alcuni aspetti relazionali, per cui G faticava - e io con lui - a entrare in relazione e a
rispecchiarsi con me a causa della mia figura (Terapeuta giovane e di sesso femminile).
- Il terzo punto riguardava espressamente l'uso dell'autocaratterizzazione come strumento di valutazione. In un caso come quello di G
- in cui capacità espressive e di riflessione sono quantomeno carenti e dove il rendimento scolastico è basso - l'uso di strumenti
di valutazione soprattutto con la consegna di farli a casa, proprio come i compiti scolastici, suscitano vissuti di estrema inadeguatezza e
difficoltà pratica nel portarli a termine.
In questo caso, tra un corollario complesso di eventi interni ed esterni alla relazione terapeutica, sicuramente l'uso dello strumento
sbagliato ha influito sul drop-out.
Conclusioni
La Psicodiagnostica è sicuramente un punto forte della nostra professione, poiché fornisce dignità statistica, una
validità riconosciuta e strumenti concreti per i professionisti che la utilizzano.
La pratica clinica attinge a piene mani dalle nozioni di Psicodiagnostica traendone grandi benefici, sia in termini di lavoro terapeutico sia
in termini di professionalità.
Ciò che l'uso del test però non porta con sé è la capacità, che solo con il tempo si acquisisce, di valutare
quando somministrarlo, come somministrarlo e con quale fine clinico.
Queste domande, forse banali, sono in realtà fonte di grandi riflessioni che sarebbe opportuno fare su ogni caso che ci viene assegnato.
Talvolta proprio la poca esperienza conduce a seguire protocolli di azioni standard, che forniscono sì una guida di azione per noi
Terapeuti, ma magari non tengono in considerazione la reale disponibilità del paziente che abbiamo di fronte.
È importante indagare le teorie che un paziente ha nei confronti della valutazione stessa ed è importante spiegare al paziente
il nostro obiettivo valutativo, in modo che questo non possa essere male interpretato.
A volte, anche questo non basta.
Come nel caso di G, anche la spiegazione relativa al test non è bastata poiché già la sola richiesta di compilazione
portava con sé un messaggio di giudizio.
Ciò che, a mio avviso, è importante sottolineare è come talvolta l'inesperienza ci porti a colmare gli spazi di incertezza
con azioni concrete verso il fare che, paradossalmente, producono un effetto contrario a quello desiderato.
Forse, anche solo l'attenzione e una lettura più approfondita dei «non lo so» di G mi avrebbe potuto donare
una riflessione, una quantità di informazioni e un aggancio maggiore a G che un qualsiasi test non mi avrebbe mai potuto fornire.
Bibliografia
- Framba R., L'autocaratterizzazione, in Sassaroli S., Lorenzini R., "La mente prigioniera", Raffaello Cortina, Milano, 2000
- Mancini F., Semerari A., "La psicologia dei costrutti personali: saggi sulla teoria di G.A.Kelly", Franco Angeli, Milano, 1985
Altre letture su HT
Commenti: 1Cosa ne pensi? Lascia un commento
|