Le comunità terapeutiche Quando la vocazione si scontra con "alcune" realtà
L'articolo " Le comunità terapeutiche" parla di:
- Legge Basaglia: dalla "contenzione" al reinserimento sociale
- Una piccola panoramica, tra risorse, limiti e possibili soluzioni
- Le professioni d'aiuto. Verso una nuova politica sociale
Articolo: 'Le comunità terapeutiche Quando la vocazione si scontra con "alcune" realtà'
A cura di: Laura Canis
INDICE: Le comunità terapeutiche
- Premessa
- Un inquadramento storico. La legge Basaglia: adozione e contraddizione
- Tra ideale e realtà
- La mia esperienza: la vastità dei mondi delle comunità terapeutiche
- Limiti delle comunità terapeutiche e risorse dei professionisti d'aiuto
- Conclusioni
Premessa
Numerose sono le comunità terapeutiche presenti sul territorio italiano, così come altrettanto numerose sono le modalità
con cui si decide di condurle.
Questo articolo nasce dal desiderio di denunciare la disomogeneità tra i vari piani terapeutici ed educativi tra strutture che
solo apparentemente paiono uguali.
L'apparente similitudine risiede nella definizione che le accomuna - "comunità terapeutiche" - ma, a una più attenta osservazione,
si rivelano tra loro "distanti" poiché fortemente differenti.
Premetto che mi rendo conto della limitatezza della mia esperienza, e dunque sottolineo fin da ora che si tratta di considerazioni
personali derivanti da esperienze, più o meno dirette, relative solo ad alcune delle tante comunità del territorio.
Tra queste ovviamente, così come io stessa ho potuto constatare, ve ne sono di tipologia e ideologia differente.
Un inquadramento storico. La legge Basaglia: adozione e contraddizione
Decidendo di analizzare la tematica delle comunità terapeutiche, non si può non prendere in considerazione la legge 180 del
1978 proposta da Franco Basaglia (Psichiatra e Neurologo).
Questa si proponeva - con la chiusura dei manicomi - di far sì che il paziente psichiatrico non venisse più considerato meramente
come portatore di una patologia psichiatrica e basta, ma di restituirgli l'aspetto di umanità.
Esattamente come avviene per gli individui portatori di qualsiasi altro tipo di patologia.
Ad esempio, un uomo colpito da una malattia cardiovascolare non viene definito da nessuno «quello è un cardiovascolare»,
bensì «quello è un uomo che ha dei problemi a livello cardiovascolare». Nel caso dei portatori di patologia
psichica, al contrario, è molto frequente sentire attribuita l'etichetta «quello è uno psichiatrico».
Secondo Basaglia tale legge, applicata alle comunità terapeutiche, avrebbe dovuto tradursi nel superamento di quelle che erano le
usanze solitamente utilizzate negli ex-manicomi, ovvero tutte quelle strategie di contenimento utilizzate con l'intento di "tenere a bada" i
pazienti: sbarre, cancelli, serrature... unitamente a psicofarmaci aventi la funzione di inibire il SNC.
La restituzione di umanità al paziente psichiatrico è favorita tuttavia non solo dall'abbandono, certamente necessario, di
queste "strategie", ma anche per mezzo del reinserimento sociale di questi individui, secondo una modalità che preveda
comunicazione e collaborazione tra interno ed esterno delle istituzioni.
Dai resoconti storici rintracciabili negli scritti di Alessandra Zanella emerge che questo tentativo è stato fatto dall'ospedale
psichiatrico Francesco Giuseppe I di Gorizia.
L'esperimento condotto dal nosocomio friulano ha reso possibile scoprire come effettivamente si potessero ottenere buoni risultati con questa
tipologia di pazienti, anche abbandonando le antiche usanze.
La legge 180 tuttavia non è stata da tutti presa in considerazione e adottata.
Molti l'hanno interpretata erroneamente come un tentativo di attribuire a puri fattori sociali la causa dei disturbi psichiatrici, ritenendo che
essa imponesse di trascurare il lato medico della patologia.
L'intenzione di Basaglia in realtà non era affatto questa, quanto quella di giungere a un'integrazione tra aspetti sociali - e
quindi la necessità di potersi inserire nel mondo reale (esterno all'istituzione) - e fattori medici (certamente non trascurabili),
mantenendo quindi con essi l'importanza dell'intervento farmacologico e del supporto psicologico.
Tra ideale e realtà
Di seguito racconterò alcune "realtà terapeutiche" di cui sono a conoscenza.
A partire dalle stesse voglio mettere in risalto come al giorno d'oggi vi siano comunità che adottano la nuova metodologia, ma purtroppo
come ve ne siano anche alcune che sono rimaste ancorate alle vecchie usanze.
Tale articolo non vuole essere una critica sterile alle modalità di impostazione delle istituzioni psichiatriche oggi presenti sul
nostro territorio. Specialmente al giorno d'oggi infatti non può non essere tenuta in considerazione la politica finanziaria che,
purtroppo, con le sue varie riforme, sta apportando tagli proprio in questo settore, rendendo tutto ancora più complesso.
Il presente, al contrario, si propone come condivisione di un'esperienza, e possibilmente come spunto di riflessione per gli addetti ai lavori.
Nella mia pur limitata esperienza ho potuto constatare che, per la cura e la riabilitazione degli utenti delle comunità, la promozione
di attività volte al reinserimento sociale si rivela un'ottima "risorsa e strategia terapeutica". Tale potenzialità però
è spesso "inapplicabile" o "impoverita" dalla scarsità di risorse di cui alcune comunità (ma forse la maggior parte?) possono
disporre (budget, personale, politiche locali medicalizzanti, etc).
La mia esperienza: la vastità dei mondi delle comunità terapeutiche
Alla base della stesura del presente vi sono informazioni provenienti da contesti differenti. Alcune di esse le ho reperite mediante
esperienza diretta durante il servizio che ho prestato - per circa un anno in veste di volontaria - presso una comunità terapeutica
per soggetti con disturbi psichiatrici correlati a dipendenza da sostanze; altre derivano dal racconto di pazienti residenti in comunità
terapeutiche diverse; altre ancora dallo scambio di informazioni con Psicologi e Educatori che hanno avuto esperienze lavorative presso tale
genere di strutture.
Tutte le informazioni reperite mi hanno permesso di scoprire come il modo di operare all'interno di queste sia non solo differente ma spesso
anche contraddittorio.
Nella comunità con cui sono stata direttamente a contatto, a essere promosso come fattore centrale nella terapia degli utenti è
il processo di integrazione sociale e acquisizione dell'autonomia personale.
Come prescritto dalla legge Basaglia del 1978, si tende all'autonomia promuovendo la programmazione di attività volte a favorire proprio
tali processi.
In tale comunità, nella fattispecie, oltre a essere organizzate abitualmente uscite di tipologia varia (cinema, piscina, acquapark, gite
in montagna...), venivano regolarmente stabiliti accordi con realtà lavorative sparse sul territorio (bar, librerie...) affinché i
ragazzi - man mano che raggiungevano buoni obiettivi nel loro percorso terapeutico - trovassero impiego grazie alle cosiddette "borse lavoro"
concordate.
In altre strutture teoricamente simili, in quanto aventi un tipo di utenza identico, ciò purtroppo non avviene. Quello che a molti
altri Psicologi (e Educatori), impiegati in altre strutture, è richiesto è di fare "i guardiani" ai residenti, puntando tutto
il lavoro - che teoricamente dovrebbe essere terapeutico - sull'intontimento da farmaci per evitare che i residenti scappino dalla
comunità o creino particolari problemi.
A tale riguardo, esemplificativo può essere il racconto fattomi da un collega Psicologo, ex dipendente di una comunità "poco
terapeutica" per ex-alcolisti.
Il collega ha deciso di lasciare il lavoro all'interno di tale struttura proprio a causa della politica organizzativa adottata dalla stessa.
Questi mi raccontava che ai pazienti venivano somministrati farmaci volti a inibire le funzioni cerebrali, così da sedarli per evitare
che si facessero del male, ma anche che fossero "troppo" da guardare.
Questa "contenzione farmacologica" pareva praticamente essere la strategia adottata dalla suddetta comunità per contrastare il disagio
strutturale, derivante da un inadeguato numero di operatori rispetto a quello dei residenti.
Sempre in riferimento a questa comunità il collega mi ha inoltre raccontato che, poiché era ubicata in una landa in periferia,
per recarsi nel più vicino centro abitato era necessario l'uso di un piccolo bus, di cui fortunatamente la comunità disponeva.
Tuttavia, sempre a causa della mancanza di dipendenti, le uscite si riducevano a una, massimo due la settimana. Inoltre, poiché il pulmino
era in grado di contenere solo un piccolo numero di residenti, non era garantita neppure un'uscita a settimana a tutti, in quanto questa veniva
fatta a rotazione.
Limiti delle comunità terapeutiche e risorse dei professionisti d'aiuto
Date le premesse, come è possibile che un "percorso (terapeutico?)" - come quello organizzato nella struttura in cui lavorava il
collega - sia considerato veramente "terapeutico"?
Un'istituzione così organizzata non può che produrre danni ulteriori a un soggetto che parte già con disturbi
psichiatrici.
Non va infatti dimenticato che - pregiudizi a parte - se un individuo trova posto in una comunità terapeutica, specie quando questa
tratta anche patologie correlate all'uso di sostanze, è perché ha certamente avuto una diagnosi di patologia psichiatrica.
Non di rado il disagio psichiatrico è connesso con l'aver vissuto una vita piena di difficoltà, spesso non cercate. La famiglia
in cui si nasce non la si può certamente scegliere. Parimenti non si può ignorare che le circostanze della vita talvolta sfuggono
al controllo (anche nelle migliori famiglie), generando processi distruttivi che si susseguono a catena.
Ciò che con questo articolo vorrei stimolare è una riflessione riferita a due considerazioni distinte ma facilmente
integrabili:
- la prima legata al compito degli operatori delle professioni d'aiuto tra cui, in primis, lo Psicologo,
- l'altra legata alla necessità di restituire umanità a queste persone.
Non si può certamente dimenticare - come già ho accennato - che in alcune strutture c'è un numero di residenti troppo
alto rispetto al numero di operatori impegnati.
La soluzione, tuttavia, non per questo deve essere di rinchiuderli nelle loro camere come se fossero celle di un carcere. La risoluzione a
tale problema sarebbe "idealisticamente" l'assunzione di un numero maggiore di operatori, ma mi rendo conto che non sempre questo è reso
possibile.
Quello che tuttavia ritengo - e ribadisco ancora una volta che si tratta di un'opinione assolutamente personale - è che tutti gli
operatori impegnati in queste istituzioni dovrebbero cercare di apportare cambiamenti, laddove possibile, tenendo a mente quella che è
la realtà che Basaglia, con la sua legge, ha tentato di capovolgere.
Probabilmente l'intervento di portata maggiore è un qualcosa che sfugge alle nostre possibilità d'azione, ovvero stanziare
più fondi per tali strutture. D'altro canto, tuttavia, ciascuno di noi dovrebbe cercare, nei limiti del possibile, di impegnarsi
maggiormente a livello personale.
Ad esempio, come avviene nella comunità da me conosciuta direttamente, gli operatori possono impegnarsi attivamente nella ricerca di
strutture presenti sul territorio disposte ad accogliere con borse lavoro gli utenti/pazienti.
Non bisognerebbe mai dimenticare, infatti, che l'umanizzazione delle persone è la base di tutto, specialmente delle professioni
d'aiuto.
Conclusioni
Tutti hanno diritto a vivere una vita dignitosa.
I pazienti psichiatrici con correlata dipendenza da sostanze che vivono nelle comunità hanno già avuto trascorsi evidentemente
burrascosi.
Credo che uno dei compiti centrali che spetta agli operatori delle professioni d'aiuto sia quello di trovare il modo, anche battendosi, per
aiutare realmente queste persone.
I residenti delle comunità sono individui molto stigmatizzati dalla società e, probabilmente, nella formulazione di questo
tipo di pre-giudizi ci si dimentica di una cosa fondamentale: l'interrogarsi sul perché alcuni ragazzi scelgono "vie sbagliate".
Perché nessuna persona vorrebbe farlo. E chi si trova a intraprendere quella strada è perché evidentemente non ha avuto
la possibilità di scoprire in se stesso le risorse personali per affrontare i drammi della propria vita. Inoltre anche l'ambiente in
cui è cresciuto, come riscontriamo spesso nella storia degli utenti, non disponeva di risorse sufficienti e adeguate alle quali potesse
attingere "adattivamente".
È proprio a partire da queste considerazioni che - all'interno delle comunità terapeutiche - bisognerebbe a mio parere tendere
verso due obiettivi, centrali nel percorso di recupero e riabilitazione degli utenti/pazienti:
- Il primo dovrebbe vertere sulla promozione dello sviluppo delle proprie risorse personali, come obiettivo personale per i residenti
nelle comunità terapeutiche.
- Il secondo - forse un po' troppo ambizioso - dovrebbe consistere in una conquista per la società intera: il diffondersi di una
nuova politica sociale che spinga a interrogarsi sui perché esistano soggetti con tali problematiche; questo per contrastare l'ancora
troppo diffuso pregiudizio collettivo.
Bibliografia
- Zanella A., Il problema dell'assistenza psichiatrica nell'esperienza goriziana. Il manicomio Francesco Giuseppe I dal 1911 al 1945,
in "Nuova Iniziativa Isontina", supplemento al fascicolo nr. 113, dicembre 1998
Commenti: 4Cosa ne pensi? Lascia un commento
|